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Giovedì, 28 gennaio 2010Bernard Noel - La privazione di senso![]() Il testo è tratto dal sito progettogeum.org di Lino Cannizzaro, che ringrazio. La traduzione è di Viviane Ciampi. Stanchezza
e rivolta, in realtà rabbia contro la stanchezza quando la rivolta dà segni di
stanchezza. Il potere ha trovato la maniera sommessa di occupare in noi i
luoghi della difesa e anche di consumare la nostra energia. Senza ragione
arriva una debolezza, che d’improvviso è cosciente solo per caso. S’indovina
allora che il vecchio sogno tirannico si sta realizzando: quello di una
sudditanza senza costrizione apparente in grado di produrre l’effetto d’un abbandono.
Ma a che invasione abbiamo ceduto per arrivare fino a questo punto? Da
parecchio tempo, per spiegare questo fenomeno, ho fabbricato la parola sensura
per esprimere la privazione di senso. E forse questa perdita provocava una
perdita critica favorevole alla sottomissione senza tuttavia addirittura
instaurarla. Le creava appena uno spazio adatto. A meno che prolungandosi, la
privazione di senso non trascini una debilitazione tanto più efficace che per
le sue vittime, non è più che
un’abitudine legata ad una forma di consumo diventata naturale. Così la
suddetta privazione avrebbe sul senso l’effetto che giustamente hanno su di lui
le droghe che intaccano le nostre facoltà intellettuali, a parte il fatto che
nessuno si sogna di fare il raffronto tanto parrebbe strampalato. Il problema è
che non si sa come definire con precisione le cause di danni che non sono
provati come tali, tanto che questa non percezione fa parte delle loro
caratteristiche. Il principale agente della privazione di
senso è oggi la televisione. Lo è direttamente attraverso l’ascolto
considerevole di cui gode, lo è anche per via dei comportamenti che induce
nella politica, nell’economia, nel tempo libero. L’ascolto è considerevole
poiché non esige nessun altro sforzo che quello di sedersi davanti al
televisore, di guardare, di ascoltare. Mai nella storia, era esistito un mezzo
d’informazione o di cultura così facilmente adatto per il consumo. Questa
facilità, ovviamente è significativa in quanto insorge in opposizione alla morale
elementare la quale assicura che nulla si dovrebbe ottenere senza sforzo.
Oramai, ad ogni ora e senza la minima fatica, il telespettatore ottiene notizie, distrazioni, documentari.
Gli basta mettersi in situazione di passività e lasciarsi penetrare da ciò che
vede. Tutto gli è dato sotto forma d’una parata d’immagini parlanti che sfilano
tanto nel suo spazio mentale quanto davanti agli occhi per il motivo che spazio
visuale e spazio mentale sono costantemente legati. Si può già ragionevolmente
inferire che questo legame non può risultare neutro e che la
compenetrazione della sfilata, giorno dopo giorno, attraverso gli occhi porta
alla pigrizia di poter formare, ciascuno per sé rappresentazioni mentali
personali, dunque di senso. Le immagini televisive sono d’altronde il
più delle volte immagini stereotipate in qualsiasi campo. Di conseguenza invitano a formarsi un sistema
di rappresentazione a loro stessa somiglianza. Ne deriva uno spossamento
dell’originalità a vantaggio d’una specie d’immaginario consensuale composto di
tutti gli identici elementi formattati dalla visione delle stesse trasmissioni.
Era considerato di buon gusto trovare eccessivo questo tipo di analisi ma il
direttore di TF1¹ li ha recentemente fatti apparire moderati assicurando (ne
riparlerò in seguito) che il suo ruolo era di “fabbricare cervelli disponibili”
e dunque principalmente spalancati alle seduzioni della pubblicità. Tanto vale sapere che la privazione di
senso è cinicamente pianificata: ciò evita di doverlo dimostrare e dà modo
d’interrogarsi su una perdita che, al di là del senso, ha a che fare con la
vitalità. Sembra piuttosto normale che il funzionamento del pensiero sia
compromesso da una sfilata d’immagini insignificanti che si sostituisce al suo
movimento naturale, ma l’effetto debilitante di tale sostituzione va parecchio
oltre. Sarà perché il tempo trascorso a fare qualcosa implica l’impegno di una
stilla eguale della nostra vita? Sarà perché, di conseguenza, la stilla di vita
spesa a lasciarsi assorbire dall’irrilevanza è in fin dei conti una spesa
mortale? Così si sta sempre più estrinsecando il sentimento che non si tocca lo
spazio mentale senza toccare il corpo. E
che il corpo in questa faccenda rimane gravemente colpito. Forse in altri tempi si sarebbe parlato
solo di tempo perduto a proposito di tempo passato davanti allo schermo
della televisione ma quando il tempo perduto diventa un’abitudine quotidiana,
cambia ovviamente natura. I Francesi, dicono le statistiche, passano in media
quattro ore al giorno davanti al televisore, cioè un buon quarto della loro
vita da svegli. Regalare una parte così consistente all’irrilevanza non può
avvenire senza danni per il senso poiché l’attività mentale da cui dipende è
sostituita da una successione d’immagini, il che è una cura d’irrealtà e di
conformismo. Questa
irrealtà è invadente perché non si limita allo spettacolo guardato
nell’intimità: essa plasma a poco a poco tutto l’ambiente perché deve
assomigliare alle immagini se vuole convincere (quando si tratta del mondo
politico), se vuol piacere (quando si tratta di prodotti e di oggetti), se vuol
sedurre (quando si tratta di relazioni). Tutto ciò agisce per contaminazione,
poiché l’invito che ci viene spedito dalle immagini rientra nel campo della
fascinazione e non della riflessione. Questo procedimento corrisponde a quello
del consumo laddove l’imballaggio conta assai più del contenuto e quest’ultimo
può rimanere identico e suscitare un desiderio nuovo a patto che cambi
apparenza. In questo gioco delle immagini,
l’apparenza è la principale mercanzia: fa in modo che si compri il nulla, ma fa
anche aderire al nulla lo spettacolo politico oppure fa amare il nulla delle
posture sentimentali o erotiche. La felicità è un’immagine e lo stesso avvenire
ne è un’altra. La realtà è ormai in sovrappiù. Essa si oblia nello stesso
sguardo che portiamo su di essa poiché lo sguardo preleva su di essa una
somiglianza che a noi è sufficiente. Il corpo è trattato allo stesso modo, però
dall’interno, poiché è il suo interno che per prima cosa funge da spazio allo
spettacolo, a dir vero meno da spazio che da canale e addirittura da
sfioratore. Le immagini vi ci colano senza essere assimilate. Sono indifferenti
a chi le riceve: penetrano e passano. Conta soltanto il loro movimento e che
quest’ultimo sia passante. Il loro senso non è che una direzione, una
progressione, che cancella man mano ciò che fa progredire nel corpo trattato
come un semplice tubo di ricezione e di scarico. E questo tubo ha per orifizio
il cervello: un cervello reso infatti disponibile grazie al movimento e che non
trattiene nulla tranne i messaggi nei quali i pubblicitari condensano un po’ di
senso. Questo senso è, beninteso, servile: non
mira a rischiarare e meno ancora a nutrire il pensiero, ha solo lo scopo di
fare consumare questo o quello, esso stesso altro non è che un prodotto
inserito in un imballaggio denominato “spot” o “flash”. Ma il senso dei
telegiornali o delle trasmissioni politiche non è meno servile di quello della
pubblicità la quale serve loro da modello. Tranne rarissime eccezioni, non si
tratta d’informare bensì di far
consumare una visione consensuale dell’attualità o di tale personaggio, tale
partito, tale avvenimento. Il procedimento del consumo guida tutti i discorsi:
sta modellando l’educazione e la cultura. Questa situazione s’avvera rovinosa poiché
il consumatore non è considerato come un cittadino responsabile delle sue
scelte, neppure come un compratore in grado di ragionare: si cerca soltanto di
sviluppare in lui una servilità che disarma la sua coscienza e la sua
resistenza davanti ad un prodotto o un individuo che porta la maschera di
un’immagine seducente. In realtà, l’installazione della servilità è cominciata
quando lo spettacolo, invece di sollecitare la partecipazione dello spettatore,
lo ha ridotto alla passività. Uno spettatore passivo è un tubo senza filtro,
che non riflette e non digerisce e ciò lo rende capace d’assorbire a getto
continuo. Questo spettatore in grado d’ingollare senza ritegno è il prototipo del
consumatore perfetto, colui che, secondo ignobili manifesti posti a bella
mostra in questi giorni, ubbidirebbe al dovere d’acquisto. Va da sé che non si può trattare il vostro
corpo come un semplice organo d’assorbimento buono solo a ingozzarsi d’immagini
senza essere disprezzato. Questo corpo sfruttato sia nella sua esistenza
corporale sia nella sua esistenza psichica non è più che una sorta di buco
organico innestato su di voi per parassitare il vivente e trasformarlo in
consumatore servile di ciò che gli si fa trangugiare. Il consumatore, in un
certo senso, si prostituisce al consumo… Forse questa descrizione potrà
apparire caricaturale: non è che una semplificazione per mettere in risalto
l’evidenza. D’altronde, c’è di peggio in questa situazione, basti accorgersi
che la privazione di senso legata al consumo passivo porta ad un ingozzamento
tramite il vuoto e colloca questo medesimo vuoto (questo nulla) nella
collettività degli spettatori. L’invenzione geniale del sistema mediatico
consiste nel riempirci con l’apparenza, in altre parole di occuparci col nulla.
Ne consegue uno strano successo se si pensa che nel corso della storia tutte le
collettività trovavano il loro senso nella condivisione di pensieri
sufficientemente forti da far sì che ogni individuo si unisse al corpo sociale
(o mistico) col sentimento di realizzarsi dentro di esso. Il miglior esempio è
fornito dalle religioni, che avevano la preoccupazione di procurare ai loro
fedeli una vita spirituale sorretta da riti soddisfacenti per il loro appetito di senso. I regimi totalitari hanno
imposto delle ideologie che avrebbero dovuto funzionare alla maniera delle
religioni esaltando la condivisione di un pensiero comune. Il loro timore che
l’esercizio del pensiero conduca alla contestazione ha velocemente irrigidito
l’ideologia nello stereotipo e l’illusione debilitante. La strana
apoteosi della società mediatica è data dal produrre pensiero unico senza nulla
offrire da pensare. Ciò è possibile
grazie all’occupazione dello spazio mentale con un défilé che mima il
movimento del pensiero. Creare una condivisione dando da dividere solo il vuoto
è forse l’operazione più redditizia del regno dell’economia. E che non smette
di perfezionarsi poiché ora si sradicano le sfumature in favore delle opinioni
binarie, quelle che accettano solamente il sì o il no. La più grande costante nel comportamento
umano è la tendenza al servilismo. In ogni epoca, la maggioranza è stata
oppressa da una minoranza, e ha potuto esserlo solo con l’unanime consenso.
Certo, vi sono state insurrezioni, sommosse, rivolte ed anche rivoluzioni,
eppure l’oppressione è sempre stata ristabilita. E generalmente dalla violenza stessa dei
liberatori il cui contropotere riprendeva i mezzi del potere: istituzioni,
esercito, polizia, tutto ciò che simboleggiava appunto, le cose da abbattere
per sovvertire l’ordine sociale. Tuttavia, divenuta mediatica, la nostra
società autorizza a sognare un potere che, senza nulla smarrire della sua
natura oppressiva, decide di rinunziare alla violenza giacché non è più
indispensabile alla dominazione. Infatti, non è più necessario opprimere con la
forza per sottomettere dato che è sufficiente occupare gli occhi per tenere la
testa e, con essa, il luogo dell’eventuale contestazione. I nuclei di potere
dei vecchi regimi s’impegnavano a proibire, censurare, controllare senza
riuscire a reprimere il luogo del pensiero che avrebbe sempre potuto essere in
grado di remare contro di loro. Il potere attuale può occupare questo luogo del
pensiero senza avvalersi della minima costrizione: gli è sufficiente lasciar
agire la privazione di senso. Così, privato di senso, l’uomo scivola del tutto
natu-ralmente nell’accettazione servile. I mezzi di resistenza sono tributari del
fatto che, per resistere, bisogna aver la consapevolezza di essere oppressi o
vittime, e che è difficile sviluppare questa coscienza quando, ad essere
oppressori di noi medesimi siamo nientemeno che noi medesimi. Al di fuori di
noi stessi non c’è nessun altro per servire da agente alla privazione di senso:
questa posizione rende difficile la presa di coscienza dell’ampiezza dei danni.
Talvolta, ci si lamenterà del tempo troppo a lungo passato davanti allo schermo
televisivo, talvolta si beffeggerà la stupidaggine di un programma pur avendola
sopportata, o ci si vanterà di smanettare col telecomando per un consapevole
zapping, ma tutte queste recriminazioni non vanno molto più in là e soprattutto
non prendono in considerazione il vero problema, cioè l’occupazione opprimente
attraverso il flusso delle immagini. Ma il peggio è che un buon programma
occupa lo stesso spazio mentale di uno pessimo… La società degli spettatori è anch’essa a
due velocità, e si vede bene che la concorrenza tra le reti e la preoccupazione
dell’Audimat² non vanno nel senso della qualità. L’unica preoccupazione è di
sedurre il più possibile affinché un Audimat favorevole valorizzi al massimo il
minuto di pubblicità. Questo ideale esige che il telespet-tatore sia
trattato, non da utente ma da cliente come sembrerebbe normale, ma mira a
renderlo docile ai messaggi pubblicitari o altri. È lo scopo che si propone
apertamente la rete più popolare, e ciò significa che il suo pubblico, ossia
circa la metà dei telespettatori francesi sarà manipolata a seconda dei suoi
interessi allorché questi saranno convinti di distrarsi o di informarsi. Questo raggiro che passa attraverso un
falso, serve a creare un ascolto per venderlo subito agli inserzionisti. Il
pubblico è una mandria e se ne contano i capi per sapere quale ne è la quantità
al fine di venderla ai maneggioni della pubblicità. Monsieur Patrick Le Lay,
presidente di TF1, si è espresso su questo problema con un cinismo che ha il
merito di mettere finalmente le cose in chiaro: “[…] il mestiere di TF1 è di
aiutare Coca-Cola, per esempio, a vendere il suo prodotto. Tuttavia, affinché
un messaggio pubblicitario sia percepito, bisogna che il cervello del
telespettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni debbono per vocazione
rendere il cervello disponibile: cioè divertirlo, rilassarlo per prepararlo tra i due messaggi. Ciò che
vendiamo a Coca-Cola, è tempo di cervello umano disponibile…” Monsieur Le Lay non precisa che cosa sia
“un cervello umano disponibile” tanto questo stato deve sembragli evidentemente
scontato, così come dà per evidentemente scontata la capacità della televisione
a produrlo. Questa certezza è un modo implicito per ricordarci che la
televisione è appunto il mezzo più rapido e più efficace per svuotare il
cervello affinché egli riceva un messaggio come se lo pensasse. Per
inciso, Monsieur Le Lay indica più avanti una ragione di questa efficacia: “La
televisione è una attività senza memoria”. In altre parole la disponibilità non
trae nessuna lezione da ciò che registra per un attimo e di conseguenza rimane
non logorabile. L’ironia –
ma nei confronti di chi? – vorrebbe che qui ci ricordassimo che al momento
della privatizzazione di TF1 nel 1987, Monsieur Bouygues³ parlò del meglio
del culturale per vincere la concorrenza e appropriarsi della rete.
Questo culturale si è trasformato in arte di rendere il cervello umano
disponibile, arte che fin qui nessun regime totalitario aveva saputo praticare
con tale successo. Questa riuscita maschera la sua efficacia dietro un
commercio che sembra riguardare soltanto i prodotti di consumo, perché non
sarebbe probabilmente produttivo per Monsieur Le Lay spiegare che la sua rete
ha per vocazione di rendere il nostro cervello disponibile – per esempio
– alle idee di Monsieur Sarkozy*. Soprattutto non si deve preavvertire la
mandria umana del compratore al quale si sta per cederlo se si vuole poterlo
consegnare in blocco e senza problemi. Si sarà capito che la disponibilità con la
quale opera Monsieur Le Lay, con un pragmatismo ammirato da tutti gli imprenditori
non è che una metamorfosi del vecchio servilismo. La società di consumo ha
bisogno di questo servilismo per farci credere che le nostre scelte sono dovute
solo a una informazione libera, oggettiva e disinteressata. Traduzione
di Viviane Ciampi ¹ Prima
rete televisiva francese ² Rileva
gli indici d’ascolto televisivi ³ Maggior
azionista della prima rete televisiva francese TF1 * Il
ministro dell’interno francese (nel giugno 2006)
Scritto da G.Cerrai
at
09:14
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finalmente ho potuto leggere e che dire? saggio di grande respiro che dopo rileggo cn calma, ma ho copiato e incollato su documento word per leggerlo con più calma oggi nel pomeriggio.. scusa gicaomo se mi sono permesso ma al pc i saggi un po' lunghi mi creano difficoltà visive..
Ho letto il testo, molto interessante. Lo è almeno per il fatto che pone la questione del potere e del "servilismo"- la figura stessa del servo, si potrebbe dire- nel segno del condizionamento sensoriale, dunque di quel "biopotere" che, da un certo momento in poi, è diventato capillare e ha caratterizzato, di conseguenza, ogni altra discussione sul potere, sulla politica, sulla vita civile. Penso che Bernard Noël sia uno degli ultimi rimasti, in Francia e non soltanto, ad incarnare queste convinzioni che, a molti, sembreranno assurde semplicemente perché non sappiamo, come diceva anche Spinoza, che cosa può fare o essere un corpo...
(Certo, il discorso oggi andrebbe ampliato ben oltre la televisione, il mass media preferito dai rancori degli intellettuali ma, purtroppo, è soltanto il più "grossolano" e il più anziano, se pensiamo che la Rete si sta dimostrando ugualmente funzionale al potere fluido e senza frontiere; ugualmente capace di offrirci, come scrive Noël, una condivisione che offre da "dividere soltanto il vuoto"...Cosa altro è Facebook, in fondo, se non la reincarnazione finto democratica della medesima assenza di eventi?) In questi giorni sto leggendo alcune sue poesie; mi piacciono molto questi versi: quel silence quel regard à cet instant du reflux où la vie laisse à sec l'os de la structure et le sillage des nerfs à cet instant où l'intuition se lève malgré l'orage des gestes et du savoir à cet istant du bas où la chair laisse apparaître les vieilles traces au fond desquelles suinte le sourire qui fabriqua les dieux quale silenzio quale sguardo nell’attimo del riflusso in cui la vita lascia a secco l’osso della struttura e la scia dei nervi nell’attimo in cui l’intuizione sorge nonostante il nubifragio dei gesti e del sapere nell’attimo della bassezza in cui la carne lascia apparire le vecchi tracce in fondo alle quali stilla il sorriso che fabbricò gli dei Da: B.Noël, Estratti del corpo, Mondadori 2001. Traduzione di Donatella Bisutti. apprezzo molto i tuoi commenti, Alessandro, grazie anche della citazione di Noel. Le prime letture dei suoi testi le ho fatte negli anni settanta, i suoi versi mi hanno sempre molto impressionato.. In quanto agli intellettuali, magari canalizzassero i loro rancori. So cosa vuoi dire, la televisione come fonte di tutti i mali è diventata un luogo comune. Ma il problema è che nel nostro paese c'è una situazione molto particolare che funge da accelerante per gli effetti deleteri del mezzo. E' impossibile non vedere che attraverso di essa passa l'annichilimento di una intera cultura. A confronto Facebook è uno scherzetto, senza contare che molto dipende da quello che ci vuoi e ci sai fare (cosa che con la TV - non dimentichiamo il vecchio Mc Luhan- non ti puoi permettere: o la spengi o la subisci, tertium non datur). E l'editoria? A chi appartiene e chi condiziona? Non mi sembra che in quel campo la situazione sia migliore. Sta agli intellettuali trovare altri mezzi, se ci riescono, e creare gli "eventi" di cui giustamente lamenti l'assenza.
saluti G:) Sono d'accordo con te Giacomo, riguardo al nichilismo passivo derivante dai media in generale, e dalla televisione in particolare.
Comincio a scoprire meglio Bernard Noël soltanto adesso, ma il suo libro di poesie da cui ho tratto i versi è già uno dei miei preferiti. Trovo affascinante anche l'alternanza di poesie e prose. D'altra parte il retroterra letterario di Noël ne fa un autore al quale bisognerebbe rendere giustizia accanto ai nomi più conosciuti. Purtroppo per noi i danni che sta facendo Facebook non sono così pochi...Si tratta più che altro di dati meno visibili di altri, meno eclatanti, perciò per il momento sottovalutati. Mi permetto di consigliarti la lettura di quest'articolo: http://www.lettermagazine.it/?p=2260 Cari saluti, A. grazie Alessandro, sono andato a leggere. Personalmente uso Facebook con molta parsimonia, i veri amici sono davvero pochi, quello che mi interessa è lo scambio di informazioni non banali. Nella sostanza si tratta di un mezzo, solo un pò più subdolo (pensa alla pubblicità che ci gira). Concordo quindi con questo:
"Tuttavia, a mio avviso, non è il caso di demonizzare i social network, se la maggior parte delle cose che girano in questi mondi virtuali è stupida è perché la maggior parte degli utenti, evidentemente, lo è; eppure questa stessa rivista, non esisterebbe se non fossi approdato qualche tempo fa su Facebook e se, tramite esso, non avessi conosciuto Juan, Alessandro, Alan, Gamy e Tinos (Raffaele già lo conoscevo). Come sempre è necessario comprendere che il male del web non è il web in sé, ma l’uso che se ne fa. D’altra parte ancora non esiste una legge che vieti a idioti e mentecatti di possedere un computer: se li troviamo fuori ad una discoteca a sniffare cocaina o a prendersi a botte allo stadio, non possiamo evitare di trovarceli tra i piedi anche qui sul web." è una questione di misura e di consapevolezza critica, insomma. un caro saluto G:) auto rimproveri, quelli utili, allarme per una molto rovinosa situazione di deriva, sono i tratti comuni di lettura che occorre tenere presente, dopo avere riletto Noel (come poeta, è una scoperta ancora più), ma quanto all'appello di Giacomo sul ruolo (produre fatti, fare cose o in modo nuovo) è qui, è l'ora, che diventi cruciale.
Io stessa, ancora, non mi riprendo dall'orfanezza degli anni sessanta-settanta e parecchio di ottanta. SCritti corsari nuovo, Ospite ingrato, ancora, o Augé...moltissimo da dire. Sull'editoria non se ne parli, anzi parliamone, ma è la sinergia che occorre, la solidarietà - umana, la consapevolezza di un collasso più generale di civiltà - SE non si inverte la rotta e si concorre a ricreare una comunità, anche letteraria (utopia, lo so, ma da sfidare, a aprtire anche da lla rete...o no?) MPQ Per gli amanti di B. Noël che ancora non ne sono stati informati, mi piace segnalare l'esistenza di due libri molto interessanti:
Artaud e Paule (collana I libri dell'Arca , Joker 2005) L'ombra del doppio -POESIA- ( collana I libri dell'arca, Joker ,2007) che è, a mio modesto parere, uno dei suoi più bei libri di poesia. Traduzione della sottoscritta. Reperibili presso la casa editrice. un cordiale ciao lucetta frisa ringrazio Lucetta della preziosa segnalazione
con Maria Pia sono d'accordo sulla necessità di superare quella apparente impossibilità, che trovo incredibile, a usare le potenzialità della rete per creare quella che lei chiama comunità, o almeno una proficua interazione tra virtuale e reale di chi si occupa di poesia. La cosa più urgente, penso, è smettere di lamentarsi e cominciare a confrontarsi sul serio, anche criticamente, anche duramente se necessario. un saluto Aggiungi Commento
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