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L'altro giorno mi capitano tra le mani queste righe di Erri De Luca, che una vaga memoria ha estratto da qualche archivio. C’è una definizione possibile per la poesia? Sappiamo di no, in fondo. Tuttavia un tentativo di dirne qualcosa, un tentativo appassionato come questo di dire qualcosa su uno dei tanti perché della poesia, può essere più emozionante - anche se lo
rileggessimo dieci volte, a cominciare dalla fulminante frase iniziale - di molte poesie che sono state e saranno scritte. (g.c.)
La poesia è il formato da combattimento della letteratura, la sua linea avanzata. Si sprigiona da un' urgenza di chi è costretto in poco tempo, in
affanno di spazio, ed esige la formula più breve per raggiungere l' ascolto. È democratica, ognuno ne ha scritta qualcuna sotto una pressione che
cercava quello scappamento. Non tutti hanno pazienza di diluire in molte pagine, in libro, l' impulso di rivolgersi lontano, di narrare, di aggiungere
un' altra illeggibile firma all' albo degli scrittori, ma molti hanno obbedito al desiderio di sigillare un pensiero, un sentimento dentro la ceralacca
antica della poesia. Per l' istante in cui è scritta, precipita in un grumo e si raffredda in forma. Poesia è salmo di ognuno, preghiera inventata e
stenografia che pretende da sé una perfezione. Per ottenerla il poeta sapiente armeggia sulle sillabe, aspira alla finitura di chi fa al tornio in
officina il suo capolavoro. Ma di tutto il suo traffico sopra il pezzo di verso, immorsato e stretto dalla contropunta, niente deve apparire, neppure
l' ombra di una scheggia. La poesia (quella stessa poesia protagonista ora anche di un Festival internazionale a Parma) deve spuntare agli occhi di chi
l' apre come: «a moment' s thought», il pensiero di un attimo, altrimenti: «our stitching and unstitching will be nought», il nostro cuci e scuci sarà
vano, scrive del suo lavoro il poeta Yeats. Il millenovecento è stato il secolo più scosso nella vita dell' umanità. La Storia, maiuscola e maggiore,
ha avuto il più spietato sopravvento sulle storie piccole e private, entrando nelle stanze a separare mogli da mariti, figli da padri, popoli da
luoghi. Secolo di assedi e di campi spinati, di cinema e di aerei, alle più vaste stragi dell' umanità ha messo a contrappeso l' invenzione degli
antibiotici che hanno risparmiato altra specie di mortalità: il nostro millenovecento è stato gigantesco di contrasti, precipitoso e perciò poetico.
Non aveva tempo né carta sufficiente. Isaak Katzenelson scrive il suo poema del popolo ebreo messo a morte, nel campo di transito di Vittel in Francia,
oggi noto per le acque minerali e negli anni Quaranta per essere l' anticamera di Auschwitz. Scrive di nascosto e sotterra sotto un albero il più alto
grido poetico sulla distruzione del proprio popolo. Poi insieme al figlio lascia Vittel nel treno che li porta ai forni crematori di Polonia, ma da
sotto le radici di una quercia, dopo la guerra spunterà il corpo vivo e illeso della sua poesia. E Anna Akhmatova viene riconosciuta nella fila di
parenti in attesa al freddo davanti al carcere della Lubjanka, negli anni Cinquanta: è lei, la famosa, la cantatrice della poesia russa, e allora una
donna in fila davanti a lei si volta. Una donna sulla cui faccia era passato con l' erpice il secolo della Storia maggiore le chiede: «Voi questo
potete descriverlo?». E Anna risponde: «Mogù», posso. Per questa risposta, per questa responsabilità la poesia è il formato di combattimento della
letteratura. Quando non c' è più tempo e bussano alla porta i gendarmi, quando battono la città con l' artiglieria, quando si sta in un letto d'
ospedale, dietro una graticola di sbarre, quando è troppo tardi e mancano le parole e il fiato è corto, allora la poesia prende il tuo posto, la mano
che non ci arriva, e arriva. Nelle prigioni, nelle cantine dei ricoveri, su pezzi di carta di fortuna si scrivono poesie. Ante Zemlajr ne scriveva su
carta di sacchi di cemento con un pezzetto di carbone. A Goli Otok, colonia penale per dissidenti di Tito, era proibito scrivere. Nel ghetto di Lodz
Isaia Spiegel nel ' 43 scarabocchiava nel suo yiddish di braccato: «Il mio corpo è un pane/ calato in un calice di sangue». Poesia succede dov' essa è
d' improvviso indispensabile, anche se il poeta in quel momento non riesce a scrivere neanche il suo nome sulla porta di casa. Izet Sarajlic, poeta di
versi ripetuti a mente dai cittadini di Sarajevo, negli anni di assedio scrive poco. Che fa? Sta lì, vive con la città scassata, condivide la fame, le
code per l' acqua, il pane, condivide granate. Non profitta di inviti a emigrare. Sta lì, quella è la sua poesia e scalda uguale. Il poeta è
responsabile del dolore e della gioia. Ho nominato qualche poeta amico, ma se non senti amico all' improvviso un poeta, un suo verso saltato agli occhi
per illuminarli, a che serve un poeta? Questo deve fare, prendere sottobraccio, dare l' amicizia di quattro passi insieme, sillabe di una strofa
miracolosa di fraternità.
Erri De Luca
tratto da “Il Corriere della Sera” del 29 maggio 2004, fu scritto in occasione della prima edizione del Festival internazionale di poesia di Parma.
*
qualcuno, che prima è venuto, è andato via lasciando
presto il suo sigillo d’acqua al centro della stanza
l’angelo ammirato attentamente nel dipinto ha
labbra chiuse, sciàmano in un coro poche voci
care, i gridi si confondono, le rondini
*
per aver soltanto vòlto il viso al tuo passaggio
hai finito lì da dietro di guardarmi, dove non vedevo
a onor del vero: non sono forse belli i tuoi occhi? o
come non sapessi già il colore dei capelli, l’opera
dolce delle labbra, il fiato, il dono della voce, chiusi
dietro al dito che indicava la più breve via in silenzio
*
l’aria ferma mi dà pace quanto basta alla figura
che ritorna a farsi viva nell’immagine intravista,
solo ricongiungimento al caldo della luce, poi caduti
il corpo, la sostanza delle cose, l’incolmabile divario
che ti ha resa un’altra lì da me; non tra noi
ricade l’ombra dove entrando il fuoco più si vuota
la materia prende a sé in un ago azzurro luce propria
*
credi, poi che di tutti i nostri gesti
cade l’ombra addosso ai muri
vi penetra una parte, s’apre il varco
tra briciole di pietra intorno all’architrave
dura poco poi nel vivo della storia
altri giorni prima, per diversi pesi,
si equilibra indietro il tempo, il piatto
uguale trattenuto a mano, basso;
hanno un solo suono i passi
dalle spalle indietro e poi
Segnalo da Pisanotizie.it, su cui l'amica Cristiana Vettori tiene una rubrica di poesia, alcune poesie di e per Peppino Impastato, che è stato ricordato a Pisa in alcune manifestazioni, con incontri, proiezioni e dibattiti in cui sono stati coinvolti gli studenti pisani. (nel video la famosa sequenza su "la bellezza" tratta dal film "I cento passi" di M.T. Giordana)
L'anacoresi che titola questo libriccino inedito di Alfredo Riponi è scelta - per definizione - eremitica, il cui estremo risiede nel silenzio non del pensiero ma della parola, o - nel suo grado minimale - nell'esicasmo, come afferma Alessandro De Caro nella sua bella prefazione. Ovvero nella ripetizione mistica di una sintetica formula devozionale, si presume fino al delirio, nel tentativo sovrumano (perchè a-temporale) di restituire alla parola un senso primigenio riducendola a puro suono. Ma il poeta, per fortuna, non deve rivolgersi a un dio. Non può prescindere da un lettore (o venticinque, per quanto ipotetici), o non è. In questo rapporto la parola, per quanto possa tendere a un suo grado zero, rimane fondante di una comunicazione, seppure lungo una rischiosa linea di confine che De Caro correttamente identifica. Dice infatti: "Lo scrittore di prosa, in genere, si ferma a considerare la frase; diciamo pure che la frase nel suo mondo creativo aspira alla qualità di feticcio o di termine ultimo del lavoro della parola. La frase assorbe buona parte del lavoro, anche se attraverso il procedimento indefinito delle correzioni che ne sbriciolano la solidità apparente (...). Per il poeta, invece, non credo che funzioni allo stesso modo; lo si vede bene che la materia del linguaggio viene accostata prima o piuttosto al di là di una forma frastica che l'assorbe secondo un'unità strutturale, come si sarebbe detto una volta, di livello superiore o di secondo grado". Per quanto quest'ultima affermazione sia abbastanza perentoria, non è inesatta. E' semmai parziale perchè privilegia, modernamente, il segno come strumento e fine del poeta, dice che questa non è una rosa ma è una "rosa". E continua: "Davanti a quest'incertezza [sull'etimo, la storia, il senso della parola] che cosa ci sarebbe di meglio da fare che lavorare dentro e attraverso quest'assenza, al di là della questione se si debba o meno rendere conto, in prosa come in poesia, della realtà simbolica in cui siamo immersi? Nel puro lavorio di un testo, nell'essenza per sempre tra-forata, circuita o pervertita della parola (...) non c'è quel cammino che potremmo chiamare, se non suonasse come una campana a morto specialmente oggi, un tentativo di anacoresi?" Ecco: al di là della questione della realtà simbolica. E' questa la rischiosa linea di confine: una poesia della parola in cui la parola riecheggi non la realtà (seppure quella parziale del poeta) ma il suo stesso suono, operando "come se si componessero delle poesie, dunque all'interno di una tradizione dall'apparenza intatta ma deflorata". Tuttavia, è bene dirlo infine, la poesia di Alfredo Riponi non solo riflette seriamente sul rapporto tra linguaggio ed esperienza (tenendo ben presente il limes che dicevamo), ma è anche consapevole del fatto che il linguaggio ha una sua voce e una sua memoria (v. anche i suoi due articoli su D. Heller-Roazen qui e qui) e che con essi la poesia, più di ogni altra arte, è capace di dare corpo all'amore, alla perdita, al dolore, alla stessa mancanza di senso che la vita ha talvolta. Un libro/percorso che è scandito (in sezioni: Incipit, Incisi, Vita nova) e assume una forma e una struttura non fittizia o strumentale, ma che corrisponde a un'idea, a un tentativo anche morale di raccogliere frazioni di realtà, che , come dice il poeta in una nota al testo, " si ordinino sulla carta , nel testo poetico o nel sogno trascritto" (corsivo mio). Forse, aggiunge, "il risultato non è subito decrifrabile, ma è lì, attende la nostra lettura".
da Incipit
I
a R.R. Florit
scale interne al tempo
verso la volta oscura della notte
assurda tentazione di osare
la scalata al cuore dell'essere
illumini unica il mio nulla
terrestre stella in altri luoghi e tempo
gonfi il vento su strade invisibili
guardiana dei deserti delle notti vuote
credenza di questi luoghi vani della mente
che sento nel tumultuoso scorrere del sangue
L'amico Gabriel Del Sarto mi segnala una collana di poesia nell'ambito della casa editrice Transeuropa Edizioni di Massa, di cui è condirettore editoriale e che ha già pubblicato due libri ("Meridiano ovest" dello stesso Del Sarto e "Gli ultimi" di Tommaso Bajek) acquistabili e/o scaricabili gratuitamente. Pubblico qui la proposta editoriale, che conta tra l'altro un comitato di lettura di tutto rispetto:
"Fuori Commercio”
A differenza della narrativa, della pittura, o del cinema di oggi, la poesia resta un’arte “fuori commercio”. I libri di poesia entrano nel circuito del mercato, ma da sempre carmina non dant panem. Questo fatto può essere letto come un limite, ma anche come un vantaggio, perché significa che la poesia non deve sottostare a regole imposte dall’esterno, ma obbedisce a una sorta di principio di necessità interna, di spinta che trova il suo appagamento nelle opere, nei libri. Fuori commercio è una collana di piccoli libri di poesia: una colonna non venale, attenta ai giovani poeti ma non solo, diretta da un comitato di lettura coordinato da Massimo Gezzi e composto da Mario Benedetti, Fabio Pusterla e Francesco Scarabicchi.Fuori commercio si colloca a metà strada tra Biglietti agli amici di Tondelli – un libro che fu inizialmente stampato in tiratura limitata senza circolazione commerciale, e inviato ai soli addetti ai lavori – e l’attività di intermediazione letteraria svolta dal Vibrisselibri di Giulio Mozzi. L’editore si offre come “ponte” tra l’autore, il pubblico e la critica, sostenendo il libro con attività di ufficio stampa e di intermediazione letteraria presso altri editori. La collana pubblicherà un numero variabile di plaquette all’anno, in edizione cartacea limitata e download gratuito dal sito della casa editrice. Fuori commercio intende privilegiare una poesia pensante, una poesia comprensibile ma non semplicistica né rinunciataria, nella convinzione che questo tipo di scrittura abbia ancora molto da dirci, anche in termini critici, sul rapporto tra ognuno di noi e la complessa realtà quotidiana e storica. Fuori commercio nasce ben consapevole della differenza che passa tra liricizzazione ed eroicizzazione del dettato. Per questo rifiuta la seconda, mentre crede che la prima possa ancora aiutare a comprendere le contraddizioni che sostanziano ciascuno di noi, individui-massa di una società in rapido e incerto divenire.
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Noto qui che con ogni evidenza Gabriel, che certamente ha partecipato al progetto editoriale, non si è dimenticato di (ed è rimasto fedele a) un documento che considero ancora interessante, e cioè l'editoriale a firma dello stesso Del Sarto e Filippo Davòli apparso sul n. 16 della defunta rivista "Ciminiera". Ne ritrovo parecchie eco là dove si parla di "poesia pensante", di differenza tra liricizzazione e eroicizzazione del dettato poetico, nel rapporto tra io e realtà. Se vi interessa trovate quel documento, nelle sue parti più rilevanti, QUI.
Credo di partire da una posizione di leggero vantaggio nel parlare di "Interno, esterno" di Salvatore Della Capa. Per due ragioni: la prima è che Salvatore è già stato presente su questo blog nel 2006 in due diversi post e quindi non è per me uno sconosciuto; la seconda è che alcuni dei testi che pubblicai (v. qui e qui) sono stampati ora in questo libro. E' inevitabile quindi che per prima cosa saltino agli occhi (almeno a me) alcune varianti tra quei testi e questi pubblicati in questo libro. Per quanto sia un pò troppo presto per dedicarsi allo studio filologico del lavoro di Salvatore, bisogna almeno dire che, quasi con certezza, esse sono opera dell'editore (e in questo caso editor) Gian Franco Fabbri. Un lavoro teso essenzialmente alla leggerezza del verso, alla limatura di certi spigoli. Non è il caso di dilungarsi, ma rilevo la cosa perchè mi interessa ribadire che l'editing è operazione necessaria tanto più per i poeti che, essendo le persone con la più alta autostima, giudicano intoccabili anche le congiunzioni da loro scritte. Per quanto ne so, Fabbri ha però avuto la fortuna, con la sua piccola casa editrice, di avere a che fare sempre con autori intelligenti, e della Capa è tra questi. Ma vediamo il libro, brevemente.
E' lo stesso Fabbri che suggerisce (v. qui), più incisivamente di quanto a mio avviso faccia il prefatore Guido Monti, una possibile lettura del libro di Salvatore, orientata sulla violenza che permea i testi, anche quando il dettato è sintatticamente "quieto". Una "bestia" sotterranea e presente, a volte "sensuale" nell'accezione piena del termine (e quindi animale), che agisce ed è agita all'interno e all'esterno di sè, violenza osservata, subita, qualche volta eticamente compassionata. Ma è anche, va rilevato, una violenza nello stesso tempo continua e rapsodica, presente e frammen/taria/tata come una cluster bomb. Non elevata a simbolo o metafora (nella sezione "parabellum" avevo invece intravisto a suo tempo -cito- "l'inizio perfino di un poemetto intensamente civile"), si coagula in testi tassello vaghissimamente eliotiani, stilisticamente limpidi, "quieti" appunto o "passivi" come nota Fabbri, in una sorta di antologia di momenti o, se vogliamo, in una poetica della latenza, o della coabitazione, in cui si rischia di parlare di violenza come qualcosa che "si sa", cioè quella violenza che più che esperire, grazie a Dio, come intellettuali e poeti percepiamo e soffriamo nondimeno e la denunciamo moralmente. In un certo senso, è quando l'esperienza si fa più personale che il registro cambia, come si avverte leggendo, in chiusa al libro, la bella oasi lirica di "Eleonora", dove anche in gesti quotidiani il dolore si cancella per qualche momento in versi luminosi. Solo qualche momento: l'autore ripristina l'allerta, i suoi "sensi da felino", e ansia, paura, sangue sono le parole che ci colpiscono dall'ultimo brano del libro.
Salvatore Della Capa, "Interno, esterno", Ed. L'Arcolaio, collana I Germogli, 2008
Teresa Ferri è già stata ospite su Imperfetta Ellisse. Trovate altri suoi testi e la nota bio-bibliografica qui. Poesia lirica nel senso più pieno del termine, nasconde nel richiamo alla natura, nell'accostamento anche impersonale ad essa, una inquietudine che va oltre la facile metafora della caducità delle foglie, dell'autunno della vita e così via. Se la vita è "algebrica", ovvero per definizione (e antica memoria scolastica) difficile, è pur sempre possibile interpretarla poeticamente, con un verso leggero e arioso, come non aliena a un ordine più complessivo delle cose e al loro ciclo compiuto e ineluttabile.
Tre fogli(e) di novembre
Croce nel sole
Non ti chiedo ragione
di questa croce ch’esplode nel sole
e goccia intorno
ombre,
millepiedi di una fatica immane
nel salire
e sempre salire
quando
troppo bello sarebbe
scivolare dal cielo
lungo vertigini di sogno
ad accecare la corsa
in fondo alle colline,
fin giù nella terramadre
che aspetta
il tuo riso sfrenato di bimba
che gioca con palloncini
in eterno.
Novembre
Profuma
di tartufi
di castagne calde
di funghi spuntati tra i pensieri
di nebbia piovuta su sogni infreddoliti
questo novembre
che grifagno ride
gelidi i suoi raggi
e crisantemi
incarta tra le rose.
Muschio già pronto pel presepe
fiorisce
su tesi e deduzioni
sbucciate fino all’osso
del teorema.
Algebrica la vita
è un film all’incontrario
dove l’omega piange
prima dell’alfa
e baro gioca
il tuo destino
tra fumi e ombre,
rari tagliati
da luce generosa.
A terra
Luce scarna di novembre
piove lenta
su pensieri e nostalgie
accoccolati
ai piedi
dei rami nudi di castagni
che pregano primavere
lungo le curve del viale
dove scivolano
foglie disincarnate
di speranza
e brividi precoci di un Natale
orfano di presepi e zampognari.
Solo dalla terra sale un profumo,
il tuo,
che ancora trema di sorrisi complici,
come a ricordarmi antichi passi
e gesti
oggi incartati tra gusci di lumache
e di castagne
vuoti.
Pubblico qui un lavoro a due mani di Alessandro Assiri e Furio Galli, in cui le parole si riflettono nella pittura e viceversa. Di Alessandro possono essere letti altri testi, tratti da "Quaderni dell'impostura", qui.
Torniamo alla poesia…Tre testi inediti che Davide Nota ha posto in calce alla sua antologia poetica “Dentro l’assedio”, scaricabile gratuitamente dal suo sito, tre testi che vanno letti comunque alla luce del lavoro pregresso del poeta. Che Davide, pur giovanissimo, abbia sentito la necessità di auto antologizzarsi, è un fatto che fa riflettere, quanto meno sull’inquietudine o irrequietezza con cui lui stesso guarda al suo lavoro e/o sulla perenne necessità di “svolta” che come poeta costantemente si porta dietro, insieme a una sorta di descente en abime ugualmente ricercata. E’ una delle ragioni per le quali ritengo che Nota, al di là di altre considerazioni più specifiche o critiche, sia una voce poetica da non perdere di vista…
Già che siamo in tema, e c’è una certa euforia in giro, riprendo qui una poesia dedicata a Barack Obama, niente meno che del premio Nobel per la LetterarturaDerek Walcott. E’stata “scoperta” ieri dalla Associazione Culturale Gattogrigio sul Times di Londra ed è stata tradotta molto bene da Eleonora Matarrese, scrittrice e traduttrice. Inedita in Italia, credo, vale la pena di essere diffusa. Ringrazio tutti quelli che ci hanno lavorato, a cominciare dalla traduttrice.
Dal tumulto emerge un emblema, un’incisione,
l’alba, un giovane Negro in cappello di paglia e tuta da lavoro,
un emblema d’impossibile profezia, una folla
come divisa dal solco scavato dal mulo,
separata per il suo presidente: un campo screziato di cotone
come neve
quaranta acri, di folla dai presagi prevedibili
che il giovane contadino ignora essere i suoi avi,
mai dimenticati, dai capelli di cotone
mentre sono allineati da una parte, è
una tesa
corte di gufi con gli occhiali e, sul campo
che gli sfugge –
uno spaventapasseri gesticola, bollandolo
con rabbia.
Il piccolo aratro continua su questa pagina rigata
oltre il suolo che geme, l’albero che lincia, la nera
vendetta del tornado
e il giovane contadino avverte il cambiamento nelle vene,
nel cuore, e muscoli, tendini,
finché la terra non rimane aperta come una bandiera, come
la sicura luce dell’alba che colpisce il campo
e i solchi attendono la semina.
Derek Walcott 4.11.2008, traduzione in italiano di Eleonora Matarrese
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