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Lunedì, 4 febbraio 2019Segnacoli di Marina - una nota su Marina PizziUn articolo su Marina Pizzi, apparso, salvo errori, sul n
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Segnacoli di Marina
Conosco la poesia di Marina Pizzi da un po', almeno dal 2006, quando
pubblicai una prima piccola nota sul blog "Imperfetta Ellisse". Dovrei
averne una certa dimestichezza, quindi. Ma con Marina non si può mai
sapere. Perché, non ostante la sostanziale invarianza nel tempo della sua
scrittura, come stile e come "forma" delle sue parole, c'è qualcosa nei
suoi versi che ogni volta apostrofa il lettore, richiamandone l'attenzione.
Credo però che sia qualcosa che interpella lei per prima, qualcosa
di necessitante che non ha trovato riposo in tutti questi anni. Perché è
potenzialmente incessante, un flusso che trova la sua prima evidenza nella
numerazione seriale dei suoi testi, e poi una sistemazione con la
pubblicazione su carta, in diversi libri, una sistemazione che tuttavia
sospetto essere inquieta, in teoria suscettibile di essere rimessa in
discussione. Il suo lavoro mi è sempre parso, forse a torto, un unico work in progress, con un nocciolo tematico duro che riguarda
soprattutto la domanda di una ragione, o una giustificazione se volete,
della vita e dei suoi accidenti, cioè del suo perché. Una
questione tutt'altro che generica, credetemi, tanto vasta quanto
sufficiente ad innescare quel flusso necessitato di cui si diceva.
Sufficiente cioè a generare quella pressione che si scarica da ultimo sulla
lingua, ma prima ancora, per usare una metafora, nel cranio e sui denti
dell'autrice. Una pressione fortissima che ha bisogno di essere
verbalizzata, ma che prima ha bisogno di essere selezionata, di essere
filtrata tra quei denti serrati. L'angoscia di Marina è, in fondo, che per
questo scopo non ci sia altro mezzo che le parole. Quali parole? Scelte
come? E' questo, secondo me, l'atto doloroso della scrittura di Pizzi,
l'emergenza creativa che nasce magari da una semplice scheggia,
un'assenza, una domanda d'amore.
Continua a leggere "Segnacoli di Marina - una nota su Marina Pizzi" Giovedì, 10 gennaio 2019Antonio Bux - Sasso, carta e forbici Antonio Bux - Sasso, carta e forbici - Avagliano Editore, 2018
Ogni tanto, per fortuna, capita di leggere qualcosa che vale la pena. In questo caso un libro dal titolo curioso, che rimanda alla morra cinese, a mosse che sono azioni lasciate all'alea, a conseguenze che in questa alea possono essere di riuscita o sconfitta, di guadagno o perdita, ma che appartengono non solo al destino, ad una Ananke inconoscibile, ma anche ad un arbitrio tutto umano, ad una scelta di fatto irreversibile. E forse possiamo assumere con qualche certezza che questa morra voglia essere una metafora della vita in cui si gioca. Le tre mosse sono le sezioni che compongono questo libro corposo (circa 190 pagine), ambizioso, articolato, costruito con un disegno preciso e con un evidente lavoro di cucitura ("una fine costruzione architettonica", dice in una nota Alfredo Rienzi), e che dà l'aria di essere un traguardo, se non proprio una autobiografia, o se vogliamo una autoantologia di cose ancora non scritte. Insomma qualcosa di importante per l'autore, forse più di quanto normalmente lo sia una propria opera (e questa non è la sua prima). E' inevitabile pensarlo perché la materia in gioco, l'ispirazione, o la necessità se volete è in primis quella di ripercorrere molte tappe della propria esistenza, una specie di risistemazione della memoria, una acquisizione agli atti non solo di evidenze del vissuto ma anche del loro senso, della loro rilevanza per così dire unica e universale insieme. E' anche un ritorno a casa, ma privo di un nostos drammatico o elegiaco o lamentevole, perché privo di eroi (c'è semmai un uomo "normale" e poco egotico, e con uno sguardo orientato anche altrove, ad altri lidi, anche culturali) e privo di agnizioni (non si tratta di riconoscere, semmai di "riconnettere") e forse, alla fine, è più un passaggio che un ritorno. Una visita nel tempo, una chiamata in causa di ricordi e anche di anime, una evocazione complessiva con qualcosa di apotropaico dentro. Non è un caso che tutto inizi con un testo, Quasi genesi, che contiene una insistita allusione ad "altri" ("Ed io non so chi siate, quando dormo / e sogno di poter baciare anch’io / come voi il sogno di essere umani. / Non so chi siate ma siete qui dentro, / come me contate distanze / e occhi di altri esseri attraversare / i nostri corpi quando passiamo"). Chiunque essi siano questi (ma preferisco pensare, forse errando, a qualcosa di ancestrale) è necessario allora pagare un tributo, ai morti forse, a chi c'era prima, a chi c'è stato. Lavorare con la memoria è sempre aprire una porta, rivangare una storia, come suol dirsi, ed è un dialogo aperto perché "i morti fanno finta di morire". Ed è sempre sottoporsi anche qui, ce lo dicono i cognitivisti, ad un che di aleatorio, ad un dato "fluido" che si riorganizza costantemente. La mossa del sasso, la prima, porta subito chi legge in un'area che è doppiamente fondante perché è quella dell'infanzia o della prima giovinezza - cioè la radice della storia, del tempo personale - e insieme quella del "luogo" o dei luoghi - cioè le regioni di un primo imprinting esistenziale, e là dove in una geografia si diventa un nome. Intendiamoci subito, qui c'è poco cedimento al rimpianto elegiaco (e qualche traccia è inevitabile, è il tema che chiama il tono), c'è semmai riconoscimento/riconoscenza: comunque è da lì che io, come mi sento e mi rappresento, provengo, ci dice l'autore. E' il luogo poetico in cui "siamo capaci di avere soltanto sei anni", in cui le stagioni come l'autunno non sono segnacoli cronologici ma "proprietà" di momenti specifici, in cui le figure che più rappresentano la formazione sono i nonni, una cosa che ci riporta a quella ancestralità di cui parlavo, ad una tradizione e, di riflesso, anche ad un'aria che non è tanto "di una desolata meridionalità", come annota Enrico Testa, quanto forse di un assolato paesaggio dell'anima. E se a volte si ha l'impressione, ad esempio in testi come "Lettera ad un uccellino", che il recupero dell'infanzia si porti dietro l'infantile come scoria di quella discesa al profondo, tuttavia bisogna capire, come avviene nella poesia seguente, "Acquario", dedicata alla madre, che si tratta di un metaforico ritorno al nido. C'è qualcosa di più radicale del nido, più agli antipodi rispetto alla morte? Ma infine il "sasso", come si intuisce dalla bella sequenza/poemetto dallo stesso titolo, è proprio la materia petrosa della morte, che è immutabile ma che permette una specie di colloquio di spiriti, come una preghiera a senso unico di fronte ad un muto altare roccioso. "Sasso" chiude la mossa omonima, ne apre un'altra, "Carta". Non so se l'ordine scelto da Antonio, di questa carta che viene dopo il sasso e che di regola lo avvolge vincendolo, sia casuale o meno. Qui però c'è qualcosa di più forte o maturo, anche in senso biografico. L'età è un'altra, è quella dell'amore, così tante volte menzionato e descritto in questi testi, un amore che esiste e non esiste, che si incarna e che svanisce, che è rosa e che è mare, e soprattutto che mantiene un'aura tra il vago e il sacro quasi stilnovista, anche quando in qualche verso prende concretezza. Non ha un nome e forse nemmeno un volto, e talvolta sembra manifestarsi come amore/idea tanto indefinito che è quasi necessario un eccesso di parole per dargli immagine e consistenza di pensiero. E' forse, ad usare un superlativo biblico, l'amore degli amori, cioè un'essenza difficile da superare, difficile da ricreare, forse perfino contenere in un ricordo. Forse, ci si chiede come lettori, è una donna, forse è una somma di donne. Forse è l'ipostasi di una stagione importante della vita, anch'essa con la sua parte di alea, con cui un uomo deve (può) fare i conti. Ma poi andando avanti ci si rende conto che tutte queste domande trovano una brusca risposta e ci si rende conto che tutto quanto abbiamo letto finora non è che una ricostruzione dei fatti, di fatti sentimentali, di quello che è stato e di quello che avrebbe potuto essere di un amore per una donna che è morta. E' una drammatica cesura del libro, come un burrone a cui chi legge si trova davanti, ed è inevitabile leggere il resto della sezione come un lamento funebre, un rimpianto, un tema dell'addio a cui le molte, moltissime parole non riescono a dare sollievo, a farsene ragione. E' in effetti la parte più "pesante" del libro, di un peso specifico che a volte sembra sovrastare la misura, nel senso che talvolta, a mio modesto avviso, molti dei testi di questa sezione danno l'impressione di un eccesso verbale, che corrisponde nell'autore alla comprensibile necessità, per così dire, di bere un amaro calice fino in fondo. E', in altre parole, una questione di "distanza" dalla propria materia poetica ("più se ne distanzia più [il poeta] la fa sua e la rende infuocata", dice Massimo Sannelli). La "distanza", quella distanza necessaria, sembra riprendere nell'ultima sezione "Forbici" il suo ruolo, anche per via di uno sguardo che si è spostato sul mondo, sulla realtà circostante, su di un orizzonte più lontano e più ampio, ma anche molto vicino però non lacerato, su una natura esplorabile con una mente meditativa ma forse più quieta, fosse anche la natura contaminata di Chernobyl (a cui è dedicato un bel poemetto), su qualcosa di "bello e irreale", come è intitolata una poesia. A tratti lo sguardo sembra quasi extracorporeo, come quando con un interessante artificio Bux disarticola il nesso soggetto-predicato verbale ("Io che legge il libro, e il libro / è biondo, suona per lui fanfare"), ed anche questo in qualche modo aumenta una distanza, l'osservazione acquista in forza connotativa, anche se l'autore non esita comunque a mettersi in gioco, a nudo, a parlare di sé scopertamente in sequenze in cui viceversa l'io è martellante. E' questa, a mio avviso, la sezione più matura del libro, più meditata, più lirica ma di un lirismo senza compiacimenti, la sezione in cui meno si manifesta una certa coazione a dire, una certa supremazia della parola che genera parola e un po' se ne innamora procedendo in lunghe cascate sintattiche (e a volte mi viene in mente Rosselli), una parte del libro in cui si registrano punte molto alte, di un sentire profondo forse più di quanto fosse profondo in "Carta", come ad esempio tutta la sequenza di undici brani del citato "Il bello e irreale", assai suggestiva.
Certo un libro che presenta molti punti di interesse, a cominciare da una
lingua davvero effusiva, magmatica, labirintica (come viene notato nelle
postfazioni di Rienzi e C. Annino) e fortemente icastica, fino alla stessa
costruzione complessiva che mette in evidenza una meritoria attenzione ad
un discorso poematico articolato, con un altrettanto meritorio ricorso al
poemetto o alla sequenza in maniera decisamente antirapsodica e quindi di
conseguenza fortemente "narrativa" di sé. Insomma un libro che per una
volta rende evidente un impegno, il fatto che non c'è scrittura poetica
vera se non si mette insieme (e si forma) il ferro poetico di cui si
dispone con il duro lavoro da fabbro. Una notevole generosità compositiva
non messa in discussione dal fatto che, a mio parere, talvolta si manifesta
con qualche eccesso verbale e che andrebbe forse messa un po' sotto
controllo operando in autonomia qualche editing, cosa a cui mi pare alluda
anche Rienzi quando parla di "muraglie della didascalia assertiva" che il
lettore deve "diroccare". Ma a parte ciò questo di Bux è un libro di sicuro interesse.
(g. cerrai) Continua a leggere "Antonio Bux - Sasso, carta e forbici" Mercoledì, 12 dicembre 2018Luigi Ballerini - eccetera. EDiaforia si cimenta ancora, dopo Agnetti, Toti e diversi altri, in una oper «Può agire come un rimedio, eccetera. E, può funzionare come un antidoto - ANTIPAURA è il suo testo d'ingresso — ai veleni della convenzione linguistica, degli abusi e delle catacresi e, al tempo stesso, può agire come antidoto al pharmakon che la neoavanguardia aveva proposto per quegli stessi veleni, un preparato salvifico e tossico insieme, secondo la duplicità di senso del termine greco originario: "medicina" e "pozione letale". Continua a leggere "Luigi Ballerini - eccetera. E" Martedì, 27 novembre 2018Documento: Lucio Saffaro - Est elladico, con un saggio di Adelia Noferi La singolarità della scrittura di Saffaro è anzitutto riconoscibile nel suo porsi all'intersezione del modello-progetto scientifico con il modello-progetto letterario: luogo critico per eccellenza, dal momento che lì si scontrano e si confrontano due sistemi di funzioni diverse (opposte?) all'interno delle strutture concettuali e operative del linguaggio, del simbolo e della forma. È noto che nel modello-progetto scientifico: 1) il linguaggio tende a ridurre al massimo l'ambiguità e la polisemia per consentire un rapporto univoco del significante con il significato, esaltando la funzione referenziale; 2) il simbolo, di tipo logico-matematico, è un segnale altamente convenzionale che garantisce il massimo di concentrazione e di formalità; 3) la forma è una metastruttura che consente l'analisi razionale e logica nella operazione cognitiva. Nel modello-progetto letterario (poetico) invece: 1) il linguaggio è il luogo di produzione di sensi multipli, l'equilibrio del segno si sposta dalla parte del significante in una moltiplicazione e complessa articolazione di «significanti supplementari» (Agosti), esaltandosi quella «funzione poetica» (definita da Jakobson) che trattiene il messaggio su se stesso, essenzialmente autoreferenziale, nello spazio di « assenza » del referente esterno; 2) il simbolo (pur nelle diverse accezioni che determinano la sua storia) è fondamentalmente « motivato », si fonda su una « eccedenza » volta a volta del significato o del significante, si statuisce per lo più come sovradeterminato; 3) la forma infine è l'insieme delle relazioni e dei livelli che costituiscono la struttura dell'oggetto. Nella diversità (e/o opposizione) dei due modelli, la cultura contemporanea, specie nell'ambito delle scienze del linguaggio, sta elaborando possibilità sempre più articolate di convergenza, e ciò nella direzione precipua offerta dal metalinguaggio. I princìpi, cioè, del metalinguaggio logico-matematico, altamente formalizzato, vengono applicati alle strutture del linguaggio in genere ed a quelle testuali (Ietterario-poetiche) in particolare (si pensi alla linguistica formale o alla teoria logico-semantica di Tarski o Petöfi), tentando proprio di formalizzare ciò che nel linguaggio poetico si presenta come non-formale (allo stesso modo come la tradizione esegetica aveva da sempre tentato di controllare ed arginare, attraverso l'interpretazione, la irriducibile sovra-produzione di senso « non-razionalizzabile » [ancora Agosti], propria del testo poetico). Ma questo progetto, che si affida al metalinguaggio, trova anche in esso il suo punto critico: « non esiste metalinguaggio » afferma Lacan e la psicanalisi post-freudiana, in stretto contatto con le poetiche novecentesche: non si esce dal linguaggio, e i poeti l'hanno sempre saputo. Ponendosi, dunque, come dicevamo, nel luogo di intersezione di quei modelli-progetti, Saffaro viene ad operare non sopra, ma dentro al linguaggio poetico, riconduce il metalinguaggio all'interno del linguaggio e precisamente come linguaggio che si autoriflette, linguaggio che si pensa, si figura, si rispecchia, duplicazione e moltiplicazione del linguaggio in se stesso (nella figura della mise en abime): infine come autologia. Il testo saffariano che qui viene presentato, Est Elladico, risale agli anni '67-'68, in stretto contatto con altri testi: Trattato del modulo (Firenze 1967), Diario autologico (Bologna 1968) e Teoria dell'Est (Roma 1969), nei quali appunto si precisa, si mette in opera e si teorizza il principio dell' autologia. Nelle « Osservazioni sulla Teoria dell'Est» (in «Idee», aprile 1970) Saffaro scriveva: « L'autologia potrebbe sembrare una limitazione del pensiero, come quella circolarità della meditazione che medita la propria meditabilità; ma se per circostanze autologiche si intendono quei fenomeni che [...] attengono a se stessi, apparirà in tutta la sua evidenza l'intensità esistenziale che si concentra nell'evento autologico ». Nella Teoria dell'Est (libro costruito secondo un rigoroso canone matematico, componendo una « cartesiana architettura ») il linguaggio « figura » se stesso attraverso il vertiginoso gioco numerico, acrostico, anagrammatico, eidologico, si autodescrive nella propria operatività e potenzialità, e, descrivendo il proprio funzionamento, anche raddoppia sia la distinzione che il nodo inestricabile delle proprie funzioni. Ed è proprio l'operazione del « raddoppio » (divisione, scissione) che si costituisce in Saffaro come preliminare e radicale: quel « raddoppio » scindente che fonda, insieme, tanto il segno quanto l'immagine, per cui l'autologia diviene il segno-immagine di se stesso, compatto ed inscalfibile enigma che nessun Edipo verrà a « ridurre », decifrandolo, e che indica e marca in se stesso la differenza, la barra, che divide e unisce, alla radice di ogni procedimento del Logos. (Ricordiamo quanto, nel suo ripensamento di Derrida, scrive Agamben: « Ogni interpretazione del significare come rapporto di manifestazione o di espressione [o, all'inverso, di cifra e occultamento] si pone necessariamente sotto il segno di Edipo, mentre si pone invece sotto il segno della Sfinge ogni teoria del simbolo che, rifiutando questo modello, porti innanzi tutto la sua attenzione sulla barriera fra significante e significato che costituisce il problema originale di ogni significazione »: cfr. G. Agamben, Stanze, Torino 1977, p. 165.) Saffaro ha recentemente pubblicato un testo che risale al '50: Il principio di sostituzione (Pollenza, Macerata 1977), assai rilevante per la direzione del suo futuro lavoro, dove la « sostituzione » è quella, globale, dell'esistente con l'ente, del concreto con l'astratto, della « cosa » con il simbolo: il fondamento stesso sia del linguaggio che della operazione razionale della logica e della matematica, la grande operazione del Logos occidentale che ha sostenuto tanto la costituzione del soggetto come unità e fondamento del Cogito, quanto la sua destituzione nella scissione (béance) che lo traversa e lo sbarra, mettendo in moto lo slittamento del senso lungo la catena dei significanti (a partire dalla « mancanza » originaria) e costituendo insieme la struttura del desiderio. In quelle pagine leggiamo: « Divido le cose da loro stesse e così raddoppio con un solo atto del pensiero tutto l'universo; speculando poi su questa separazione dell'oggetto da se stesso, trovo che posso formare nell'intervallo privo di misura infinite estensioni immaginarie e una sola reale che è la coincidenza; similmente all'infinità prodigiosa dei logaritmi del numero ». Se la « divisione-raddoppio » iscrive l'operazione del « simbolico » (e il « reale », che in Lacan si definisce come il non-simbolizzabile, è l'impossibile coincidenza), lo spazio dell'immaginario è lo spazio stesso della « separazione », dell’« entre-deux », della barra o piega. Il « modello disgiuntivo » si iscriverà costantemente nella scrittura di Saffaro, sia a livello tematico, sia a quello dei dispositivi testuali. Così si veda, in questo Est Elladico, per il primo livello: « Lo scambio era allora soltanto un trionfo del modulo [...] »; « queste contrapposizioni astratte, erano piuttosto il modello disgiuntivo di figurate preferenze »; « la duplicità dell'esistenza »; « vuota divisibilità »; « Se gli affetti si disgiungono [...] », fino alla pronuncia di quella « angoscia distintiva » che si sottende a tutta la scrittura. A livello testuale la duplicazione prende qui la forma della coppia IO/TU, sia nella sua contrapposizione (« Tu conosci le grandi ruote del mondo [...] io ti porto il significato delle azioni », ecc.) sia nella sua combinazione in un NOI che non neutralizza l'interna scissione. La scissione, anzi, non si apre solo fra la prima e la seconda persona, ma nell'interno stesso del soggetto (nello spazio della «elongazione»: «spenta alterità da me»), come pure all'interno delle percezioni, della memoria, del pensiero, all'interno dello spazio e del tempo. Allora la « distinzione » che si moltiplica, sottraendosi alla riduzione all'unità, sembra offrirsi solo ad una protratta, astratta « numerazione », « catalogo », « raccolta » (« Sull'elenco di tutte le azioni scegliemmo la duecentocinquantacinquesima [...] poi ci accorgemmo di averla già tralasciata. L'intelligenza degli atti trascendeva ogni possibile elenco »; « Alla ricerca del libro dei libri componevamo il segreto catalogo dei concetti: così il dizionario astratto cresceva come un'algebra universale », ed è facile, qui, il richiamo a Borges, del resto proposto da vari critici; ed ancora: « radunammo le immagini del mare »; « Così il continuo simulacro da te aggiunto alla vuota divisibilità, riprende la numerazione della statua sostanziale »). In realtà l'elenco, la numerazione delle scissioni e delle differenze, l'astrazione stessa su di esse operata sotto « la trionfale tenda algebrica », non vale né a ridurle né ad eluderle: ogni operazione formalizzante si scontra con qualcosa di irriducibile all'unità, all'identità e alla presenza: precisamente con l'immagine-simulacro (« Mi avevi chiesto l'immunere Trattato, la nozione assoluta, lo scritto invariabile; io non sapevo darti che l'immagine necessaria »): quell'immagine-simulacro (oggetto, paesaggio, evento, persona, statua, architettura) che non partecipa né del reale né del simbolico, resto in consumato dell'astrazione del pensiero, di là dalla distinzione vero/falso, indecidibile, la cui connotazione è l'angoscia (« Lontano dall'esistenza [...] distinguo chiaramente preannunci di angoscia [...] si inviluppa entro se stessa la luce fluendo senza forma verso manifestazioni virtuali di immagini poste oltre il concetto di luce-tenebra, luogo senza limiti né orientamento », Principio di sostituzione). L'opera di Saffaro appartiene a questo spazio di violenza e di angoscia del simulacro. Ricordiamo quanto di esso affermava Deleuze: « Il simulacro è quel sistema ove il differente si rapporta al differente attraverso la differenza stessa» ( Différence et répétition, Paris 1968, p. 355); e quanto scrive recentemente J. Baudrillard in « Précession des simulacres »: « non si tratta di irreale, ma di simulacro, vale a dire di un'immagine che non si scambia più con del reale, ma si scambia solo con se stessa, in un circuito ininterrotto in cui né la referenza né la circonferenza sono in alcun luogo » (in « Traverses », 10 febbraio 1978). Il simulacro è esso stesso autologico, autospeculare, ripiegato sulla propria « differenza », convoluto su se stesso nella torsione dell'anello di Moebius (ed è significativo che questa figura della moderna topologia, che emerge frequentemente nella scrittura di Saffaro, sia stata utilizzata da Lacan per la formalizzazione della struttura del soggetto, e compaia anche nello scritto di Baudrillard sul simulacro). Una torsione che, superando la contrapposizione dell'ossimoro, rende, in Saffaro, reversibile e indecidibile qualsiasi coppia antitetica, sia concettuale (vero/falso, tempo/eternità, sensibile/intelligibile) sia operativa l'opposizione delle aree lessicali, ad esempio: scientifica/letteraria (iper-letteraria, anzi, nel recupero di una tradizione aulica che va dalla « tragedia » dantesca e cavalcantiana, attraverso il rinascimento, il neo-classicismo e il decadentismo — l'attacco di Est Elladico ha addirittura inflessioni dannunziane - fino al surrealismo metafisico), oppure l'opposizione dei modelli di enunciati (logico-scientifici dimostrativi e asseverativi gli uni, prevalentemente illocutori gli altri, addirittura di tipo mistico-profetico, alternati con strutture periodali di tipo narrativo), fino alla opposizione-duplicazione stessa di linguaggio/metalinguaggio.
Lo spazio della duplicazione e del simulacro (della « scrittura » in senso
« derridiano ») è centrale e genetico nella cultura novecentesca, ma
percorre sotterraneamente tutta la tradizione occidentale, affiorando
singolarmente in area tardo-rinascimentale e meno marcatamente in ambito
tardo-romantico. Le citate parole di Baudrillard a proposito del simulacro
contengono, leggermente alterata, l'antica definizione dell'ente divino
attribuita ad Ermete Trismegisto: « un cerchio il cui centro è ovunque e la
circonferenza in nessun luogo ». Effettivamente il richiamo più persuasivo
che si possa proporre per l'operazione di Saffaro è quello alla grande
tradizione ermetica, particolarmente nelle sue emergenze rinascimentali
(Ficino, Pico, Delminio, Bruno), nelle sue connessioni con la Cabala, il
pitagorismo, l'alchimia, le teorie della figurazione simbolica (si pensi
alla « summa » di questa cultura riscontrabile nel Settenario del
Farra e nella sua « filosofìa simbolica »), tradizione che Saffaro combina
alle ricerche ed ai risultati più recenti della matematica, della
geometria, della fìsica moderne (si veda in questo senso il suo scritto di
fisica: Dai cinque poliedri platonici all'infinito), e che investe
anche tutto l'insieme di quei « giochi linguistici » che si connettono
direttamente alle sperimentazioni rinascimentali e medievali. A questa
tradizione, appunto (le ruote, gli alberi lulliani, le artes memoriae di Delminio e di Bruno, le « statue » bruniane del Lampas triginta statuarum, il recupero simbolico delle immagini
degli dei degli antichi del Ripa o del Cartari, i geroglifici, gli emblemi
e le imprese, il classicismo esoterico di Pirro Ligorio, i calcoli e i
giochi prospettici), appartiene gran parte della imagerie e dei décors saffariani (erme, architetture, idoli, statue, paesaggi
costruiti come i giardini simbolici del Rinascimento), sì che leggendo
certe pagine sembra inoltrarsi tra i simulacri di pietra del « bosco sacro
» di Bomarzo. Ma nella stessa tradizione si inseriscono anche i
procedimenti di scrittura (giochi verbali e numerici, pitagorismo e Cabala)
e soprattutto la costante componente di « ritualità » che caratterizza sia
le operazioni descritte nei testi saffariani, che la operazione stessa
della scrittura del testo. Riti di iniziazione o di purificazione, di
augurio o profezia, di contemplazione, di « attesa », gesti e percorsi
rituali (evidentissimi in questo Est Elladico, ma anche nello
pseudo-romanzo che è Fars, tracciato proprio su un percorso
rituale): questa lenta, densa, assorta e lucida ritualità simbolica
costituisce la sostanza stessa degli atti, delle azioni, che non conoscono
altro margine di esistenza se non quello appunto del rito o della
trasformazione nelle « operazioni » logiche ed autologiche della
riflessione. La trama pseudo-diaristica di queste 24 epistole, come quella
del Diario autologico, costituisce in realtà lo spazio di una
radicale « dislocazione » (« Dislochiamo arditamente questi giorni nelle
araldiche di metafisiche incompiute », leggiamo nel Diario):
dislocazione nello spazio del simulacro e dell'autologia. Questo è il rito
che si celebra anche, punto per punto, in Est Elladico, dove lo
spessore del simulacro (« la densa ramificazione dell'identità ») resiste
alla « logica assoluta » e continua a promuovere, nella sua corsa
metonimica, il desiderio. Il titolo stesso è costruito come un geroglifico
complesso, un emblema verbale. Lo statuto « logico », « allegorico » ed «
estetico » dell'EST verrà dichiarato proprio nella Teoria dell'Est
: « L'oggetto fondamentale è l'epistasi della realtà, il suo coronamento
immaginario assoluto ed infinito; costituito di Esistenza, Spazio e Tempo;
e l'EST ne è il simbolo proprio », che si raddoppia a sua volta in
Estetica, Sapienza, Teoria. Le tre lettere che lo compongono rimandano
inoltre a TRIESTE, non soltanto luogo di nascita dell'autore, ma luogo
reale al quale si riferiscono queste 24 epistole (numero rituale, come poi
le XXIV Tesi della Diateca, testo esemplare per la struttura del
simulacro: della lenta, impercettibile torsione dell'identico nel diverso).
Come punto cardinale indica l'oriente: insieme origine e termine della «
occidentale meditazione » (« La ricerca dell'occidente non aveva fine [...]
l'orlo ammetteva circolari soluzioni »), delle « vicende occidue » che «
nascondono le nascoste proprietà dell'immaginazione », di contro alla «
luce orientale » delle « assorte geometrie del pensiero »; mentre il
riferimento all'Eliade indica il luogo e il tempo della nascita stessa del
Logos, « dei fasti primitivi dell'idea ». Ma il sintagma Est Elladico è
anche uguale e diverso (simulacro) dall'altro, diversamente ripartito:
Estella Dico, che in esso si iscrive letteralmente e semanticamente, dal
momento che Estella è il nome del TU presente nel testo, insieme
destinataria delle lettere-epistole e « oggetto » del « dire » da parte del
soggetto dell'enunciazione, personaggio femminile che diviene così,
mediante la radicale « dislocazione », da persona biografica (ma pur
rimanendo tale, nella sua iscritta nominazione) «oggetto assoluto»: quel
«coronamento immaginario della realtà » di cui l'Est è il simbolo proprio.
La scissione stessa si sposta nel corpo verbale, duplicandosi, vi
moltiplica i « bivii » del senso, si avvolge su se stessa nella propria
auto-affermazione: « dire Estella » è allora « dialogare », accedere alla «
divisione » del dialogo: « Ma se dividi, lasciami questa definizione che ci
trattiene in erti dialoghi indeclinabili ».(adelia noferi) Lucio Saffaro
è nato a Trieste nel 1929, si è laureato in fisica pura all' Università
di Bologna, città nella quale ha vissuto dal 1945 e dove è morto nel
1998. E stato pittore, scrittore e matematico. Dagli anni Sessanta si è affermato come una delle figure più originali e inconsuete della cultura italiana, ricevendo ampi riconoscimenti in ciascuno dei campi in cui ha operato. Le sue ricerche sulla determinazione di nuovi poliedri sono state oggetto di numerosi saggi e conferenze, tenute da Saffaro in Italia e all'estero. Queste ricerche a loro volta sono state commentate da autorevoli studiosi e più volte apparse negli annuari della Enciclopedia della Scienza e della Tecnica di Mondadori, oltre che in riviste scientifiche. Ha pubblicato oltre cinquanta opere letterarie, recensite e presentate da critici prestigiosi, per Lerici, Scheiwiller, La Nuova Foglio, l'Almanacco dello Specchio di Mondadori e le Edizioni di Paradoxos da lui stesso ideate. Nel 1986 ha pubblicato a Parigi Teoria dell'inseguimento, con un saggio introduttivo di Paul Ricoeur. Maggiori notizie e una bibliografia completa sono reperibili sul sito della Fondazione Lucio Saffaro (v. QUI). Un importante contributo, con scritti di Saffaro e note di Gisella Vismara e Rosa Pierno è reperibile su Diaforia.org (v. QUI) Testi tratti da Almanacco dello Specchio 8/1979. L'opera a stampa a cui riferirsi è Est elladico: XXIV epistole, Paradoxos, Bologna 1973, oggi purtroppo introvabile. Continua a leggere "Documento: Lucio Saffaro - Est elladico, con un saggio di Adelia Noferi" Mercoledì, 14 novembre 2018Nicola Grato - Inventario per il macellaio Nicola Grato - INVENTARIO PER IL MACELLAIO - Interno Poesia
2018
E' difficile dire qualcosa di questo libro prescindendo dal suo titolo. Un
titolo è importante, lo dico con qualche cognizione di causa. Nei libri di
poesia è quasi sempre campato in aria, o ripete un verso disperso
nell'opera, ecc., a parte certi titoli memorabili, come Allegria di naufragi, per citarne uno. Ma quello di questo libro
dà l'impressione di essere, per dirla con Genette, un titolo tematico.
Insomma, un titolo forte, che dà una robusta indicazione. Perciò è con una
certa sorpresa che poi, leggendo, ci si ritrova in una atmosfera che non ha
l'odore del sangue né l'ossessione tragica di dare un ordine inventariale
alle cose.
Le cose, certo, ci sono, e appartengono anche nel caso di Nicola Grato a
quello che più volte ho chiamato un universo ristretto. Ovvero
qualcosa di insieme concentrato e "vero" (vero per chi scrive), di
universale e insieme strettamente privato, di condivisibile e insieme
inconoscibile per chi legge. E' il mondo visto da una prospettiva
personale, una vera "soggettiva" in senso cinematografico su una realtà
essenzialmente domestica. Va da sé che ogni poesia è soggettiva,
anche quando chi scrive fa di tutto per defilarsi. Si tratta di vedere
quali, quanti e di che qualità sono viceversa gli oggetti poetici, gli
elementi affettivi, emozionali, estetici che passano.
Questo è fondamentalmente un libro che un giovane dedica alla memoria, a
una memoria che riguarda i morti, certo, ma anche una memoria come valore
etico, come elemento sociale, come eredità ed identità e magari, infine,
come debito ancestrale, verso un luogo circoscritto, che forse la maggior
parte dei giovani abbandonerebbe. Insomma una memoria che rammemora sé
stessa. Sintomaticamente tutto questo è anche memoria della forma, sotto
diversi aspetti che si riflettono soprattutto sulle scelte stilistiche e
prosodiche di Grato, e debito culturale, stante che la versificazione di
Nicola è quanto di più aderente ad una tradizione si possa immaginare. Già
i testi di esordio della raccolta (ed è per questo il senso di straniamento
di cui parlavo sopra) ci spediscono proprio in quell'universo circoscritto
tanto lontano da qualsiasi ipotesi "forte" [anche vaghissimamente
grandguignolesca o tragica] quanto può esserlo un salotto gozzaniano.
Infatti è proprio Gozzano l'autore che più spesso viene alla mente,
soprattutto per le piccole cose, gli oggetti che vengono quasi enumerati,
le molte "cianfrusaglie di tante vite, / cose da poco, monili / perciati
destinati al fuoco". Eppure questi ambienti sono scenari di morte, una o
più, e stratificazioni di un dolore che però sembra rattratto, un po'
frenato, trasferito subito su una malinconia elegiaca che è già - anche
prima di una ipotetica funzione catartica della poesia - elaborazione e
accettazione. Come un bighellonare col pensiero in un villaggio che siamo
rassegnati ad abitare, e che quindi non può nemmeno alimentare una
nostalgia, un ritorno alle origini, visto che siamo già qui. La cifra
complessiva è proprio questa e ruota intorno alla perdita (della madre si
suppone, del padre) però come dicevo già in gran parte metabolizzata
proprio per via poetica. Soprattutto attraverso il fattore poetico per
eccellenza, in una poesia di questo tipo, e cioè il ricordo, uno sguardo
che indugia molto, poi, sugli elementi totemici del ricordare stesso, le
cose, gli oggetti che popolano le stanze, che intermediano tra presenti e
assenti, ne sono - e questo è importante da capire - le spoglie in qualche
modo "animate". Chi scrive è come immobile al centro di questa
perlustrazione dell'ambiente quale contenitore dei ricordi. Il tempo è
fermo al momento degli eventi, privandosi di ogni dopo, come in ogni lutto
che si rispetti. I calendari sono fermi "da una vita a dicembre", gli
orologi sono fermi, le foto, ovviamente, sono congelate in eterno, come la
luce, "una luce / di vetro il giorno ch’è morto / mio padre in dicembre – /
mia madre in aprile". Il legame con tutto questo è forte, si ha quasi
l'impressione che Grato lo viva come impossibilità di distacco, anzi con
una qual soggezione, un "riguardo" che trova qualche riflesso anche nella
lingua, con qualche accento dialettale (settimanile, perciati, cunto,
azolo, balata) che però Nicola non usa in senso pittorico o espressionista,
ma come esornazione o come elemento "nomade" (all'interno dell'italiano) di
un rimpianto.
Le cose migliori, alcune delle quali ho riproposto qui, Grato le esprime
proprio quando si allontana un po' dal memoriale elegiaco per volgere lo
sguardo all'intorno, per osservare con occhio meno privato ma non meno
dolente la vita, per riflettere su quanto di più universale il pensiero può
cogliere anche all'interno di un mondo circoscritto, come ad esempio nella
sezione Sommario dell'abbandono o in parte anche in Un paese di persone in volo. Si intravede qui quello che forse
intravede, poeticamente parlando, l'autore. Cioè l'esaurimento di una
tematica, come ultima elaborazione del ricordo malinconico, o del rimpianto
(e non potrebbe essere altrimenti), e il passaggio verso altre domande su
cui esercitare forse anche un diverso linguaggio o addirittura altre forme.
Insomma, una raccolta in cui forse Grato avrebbe potuto, con i mezzi e la
materia che ha, tentare di andare un po' più a fondo, magari contrastando o
arricchendo il dato memoriale, la massa oggettiva delle "cose" con uno
scatto immaginativo, imponendo alle cose stesse il suo intimo,
trasfigurandole. Ma va detto, a parte queste considerazioni che, come
ricordo sempre, sono solo un punto di vista, che quella di Grato è
complessivamente una poesia piuttosto buona, proprio nel suo essere
tradizionale, anzi crepuscolare, con un orecchio stilistico particolare per
musica e metro, assonanze e rimandi, rime interne e consonanze, insomma con
una cura della lingua che si fa notare. Come dicevo sopra, i mezzi ci sono,
e anche la materia, forse non sfruttata (o aggredita) come avrebbe dovuto.
Immagino che Nicola vorrà mettersi alla prova con altri temi, con altri e
più ampi orizzonti. (g. cerrai) Continua a leggere "Nicola Grato - Inventario per il macellaio" Martedì, 6 novembre 2018Gabriele Galloni - Creatura breve
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