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Venerdì, 19 ottobre 2018Federico Federici - MROGN Federico Federici - MROGN - Editrice Zona, 2017
Non incrociavo Federico Federici da anni, almeno da quando
circa dieci anni fa avevo pubblicato qualche testo della sua bella
traduzione dal russo di Nika Turbina (Sono pesi queste mie poesie,
v.
QUI
) e soprattutto avevo brevemente annotato la sua raccolta L'opera racchiusa (v.
QUI
), con cui aveva vinto il Montano 2009 (e qualcuno lo ricorderà anche come
autore con l'eteronimo di Antonio Diavoli). Ora, cioè qualche tempo fa, mi
manda il suo Mrogn, uscito per Zona alla fine del
2017, premio Pagliarani 2016 per la raccolta inedita.
Mrogn è un luogo preciso, da qualche parte dell'Appennino Ligure, designato
da un toponimo dialettale di cui sfugge il senso. Mrogn è un luogo
immaginato, ambientazione e set di accadimenti misteriosi e insieme
ineludibili. Mrogn è la coincidenza, anzi la tangenza di presenza umana e
natura, entrambi su un confine invisibile tra dimensioni diverse e tuttavia
intrecciate. Mrogn è una metafora, e quindi un coagulo di senso, non
necessariamente esplicito ma, forse proprio per quello, necessariamente
esplorabile. Mrogn è, probabilmente, un viaggio per il quale la lingua è il
principale passaporto, anzi un viatico, in un'oscurità la cui dissipazione
è una sfida, forse perdente. Infine, e proprio per tutto ciò, Mrogn è un
poema, con quel che ciò significa in termini di spazio e tempo, di respiro
e unità di intenti, di indagine ed epos dell' "evento".
Qualcosa accade o è accaduto, lassù. Sì, forse indagine è la parola giusta,
basta non perdere mai di vista il fatto che non è la soluzione che conta, e
nemmeno la concretezza di qualsiasi fatto. Anzi, è chiaro fin
dall'inizio che è l'incerto, l'indefinito, il probabile non provabile, questi ed altri gli elementi da cui principalmente
è composta questa scrittura. L'accaduto, qualsiasi cosa esso sia, ha un
valore traslato poiché non è che un frammento su cui si esercita un
tentativo di penetrazione della realtà, intesa - in ultima analisi
- in senso astratto. Va notato subito però che, trattandosi di un poema,
qui non c'è, non può esserci niente di frammentario o rapsodico, insomma ho
fatto riferimento a spazio e tempo per qualche ragione. Se i testi sono
brevi o brevissimi è perché hanno, devono avere, l'essenzialità dell' indizio, fissando in esso una porzione di accaduto, e a ciascuno
ne segue un altro, una serie, una sequenza che compone il macrotesto, se
posso usare questo termine improprio. Si arriva alla fine del libro, lo
dico subito, senza soluzioni del "dramma", perché - va detto anche questo -
il dramma, inteso in senso teatrale, è in realtà un presentimento,
forse una leggenda, o una paura, privata o collettiva.
C'è in effetti una dimensione che potremmo definire teatrale, una possibile
interpretazione a più voci, voci indefinite, anch'esse forse metafora di un
indistinto popolo che vive, forse scrive, forse legge, la vicenda poetica.
Sono essenziali qui, in cima ad ogni testo, degli exerga didascalici, delle
indicazioni quasi di scena, di teatro o cinema, che avviano (ma non
conducono, quello è affar suo) il lettore. Facciamo qualche esempio:
(sottovoce – corsivo a verbale); (altri rilievi, anatomie di scena);
(esterno: notte); (primo testimone: un sacrestano)
, e così via. E' chiaro che tutto concorre ad un tono di indefinito
mistero. I "reperti" disseminati come testi apparentemente in sé conclusi
non portano nemmeno a definire che esista un "fatto". Ed è questo, io
credo, uno dei temi del lavoro, se non il principale: una verità
irrealizzabile come vera, perché relativa, intersezione e contaminazione di
parole e punti di osservazione, in un certo senso "privata" di ciascun
osservatore. Esattamente, se vogliamo, come la verità dell'artista, nel
momento stesso in cui si manifesta. Il vero si possiede forse con il suo
"nome" ("l'ha raggiunto il nome, / preso"; "non avrà altro nome / al di
fuori di sé"; "lo scomparso ha nome?"; "Non si può affermare / che sapremo
il nome / dentro cui è morto"; "Lasciateci da soli / a cercare il nome";
"si ripete in bocca della preda / il nome, quasi s'avverasse / in quello";
"lascia perdere / il bersaglio / - è il nome"; "Si sentiva minacciato / nel
suo nome" ecc.). In definitiva, con la parola che identifica e tenta di
organizzare il reale.
Lassù su quel colle, si diceva, qualcosa c'è o c'è stato, esiste o è
esistito. Una scomparsa, o una morte. Come anticipa il risvolto di
copertina: "Chi è morto? Un animale, si direbbe. Chi è scomparso? Un uomo,
si direbbe - se non che anche l'uomo è un animale". Va bene, ma questo è
avvenuto prima, per paradosso possiamo dire prima ancora che il
libro venisse scritto. Il libro viene in un certo qual modo dopo, in
risposta a quelle domande e ad altre che inevitabilmente seguono. Come
quella di cosa sia realmente l'oggetto della caccia/indagine, una caccia metafisica, come sottolinea la motivazione del Premio
Pagliarani, ricordando giustamente la caccia allegorica del caproniano
Conte di Kevenhüller (là alla Bestia, qui all' "altra cosa"). Il luogo è
essenziale, non tanto nella sua dimensione fisica quanto soprattutto nella
sua essenza simbolica. Simbolica è la sua oscurità, simbolico è il suo
intrico. Il luogo è il bosco (e bosco è una di quelle parole - nome, animale, ecc - che ricorrono nel libro, come
segnavia), un luogo senza confini istituiti ("Non esiste il punto / dove il
fiume penetra / nel bosco, né / le vene il corpo" e "sulla carta non esiste
bosco"), nel quale addentrarsi è cedere una parte di sè o paradossalmente
acquistarne, segno che la ricerca (di verità, di risposte) è un valore nel
suo svolgersi, è formazione. E', in altre parole, trasformazione,
forse metamorfosi ("Non si penetra nell'ombra. / Entra in noi l'ombra del
bosco"). Le cose, nella caccia, evolvono. E non è un caso che dei testi
abbiano un carattere sapienziale, che ricorda certe "sentenze" dell' I Qing, il Libro dei Mutamenti: "Lo scomparso ha nome? / L'animale
un'orma, un verso? / Chi cercò nel bosco un varco / è perso". Ma evolvono
come enumerazioni di oggetti o come evidenze di una incapacità di dissipare
per sempre l'oscurità del bosco e l'opacità della verità che si suppone
esso contenga. E forse come metafora della lotta - spesso perdente ma
sempre necessaria - della parola per essere "definitiva" sulle cose e sulla
realtà, specie su una realtà in schegge, sulle tracce di essa ("Che parola
mise sulle tracce, / o che parole erano le tracce? / Chi parlò, / senza
coprirsi di silenzio?"). E' un nobile tentativo, come sempre è la
scrittura, di gettare l'ombra al di fuori di noi.
L'indagine alla fine non ha esito, ma lo sappiamo già, perché un "rapporto"
proprio all'inizio del libro ci informa:
Ma non è nemmeno una sconfitta, è la stessa ricerca il segno e il significato del lavoro, come dicevamo all'inizio, la
compenetrazione di indagine e oggetto indagato, come abbiamo appena letto.
Un libro di fascino, indubbiamente, stilisticamente imperioso e tuttavia
aperto all'immaginazione anche visiva del lettore, nelle ampie radure (del
bosco, del testo) lasciate a chi legge, negli spazi bianchi, come innevati, tra i versi. E il cui principale interesse sta in una ricerca non solo
sulla lingua, peraltro mantenuta a un livello strutturale semplice e
ordinato, anche in funzione della natura volutamente frammentata del testo,
ma comunque sempre serrata ("Taglio per taglio, rima per rima, la caccia
alla lingua è proiettata in cabina di montaggio", ci rammenta Fabio Zinelli
nella motivazione al premio); ma ricerca anche sui temi, sulle cose da
dire, sui livelli espressivi, sulla "storia", su tutto ciò che poi
sostanzia e incarna quella lingua, non lasciandola mai mero strumento privo
di suggestioni. Un linguaggio franto e sincopato, e volutamente antilirico,
non emotivo, che consegue l'ossimoro di una trasparenza
dell'incerta e brumosa oscurità del mistero.
Infine, al di là di ciò che può scrivere il recensore, una cosa che ama
pensare il lettore: che a volere un po' tirare le cose per il bavero, mi
piacerebbe leggere qui anche forse una metafora politica, di quel timore,
di quella paura di un nemico misterioso, di quella incertezza che pervade i
nostri tempi. Insomma mi piace pensare che la poesia, ancora e ancora,
assorba e restituisca il suo tempo. (g. cerrai) Continua a leggere "Federico Federici - MROGN" Giovedì, 11 ottobre 2018LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità, a cura di SONIA CAPOROSSI a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018 Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo, per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]). Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione, l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento, ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso, l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria), emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi, corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di "indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto. E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato, in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso tra segno e significato, propria dell’esperienza poetica per eccellenza" (appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro) di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi, interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e dell'agire artistico in genere. La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso. Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è (sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma (per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete, una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria "economia" funzionale. Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro. Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per inciso, a volte un po' "auto-") e per conseguenza più aderente al contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni, codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione, debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti, indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il "buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi sia decisamente orientata in questo senso. E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un "potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al "raggiungimento del livello informe della parola (stessa), condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di volta in volta, nell’atto del suo stesso farsi", non so se questo può bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie, come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta. E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore (ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende, succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro, allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima, prelogica) di porre nessi metaforici tra l’immagine poetica e la semiosfera esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore o entrambi. Come precondizione, immagino. Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di "informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua "soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato (sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore, specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa "longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una "semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome - come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine, su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti. Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai) [1]
Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di
campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di
raccolte. Campionamento di molte cose, se volete
anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione
di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso
che un margine esista) in territori, come quello della poesia
orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella
voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente.
(diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a
favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci
guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della
poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo
testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio
che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno
tra molti, della questione.
[2] Definire l’ultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del (ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure avercelo. L’ultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente [il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella migliore delle ipotesi (e mi pare di essere d’accordo con I. Testa, citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono, senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi, che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio (preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia civile). Continua a leggere "LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità, a cura di SONIA CAPOROSSI"
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