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Mercoledì, 14 novembre 2018
Nicola Grato - INVENTARIO PER IL MACELLAIO - Interno Poesia
2018

E' difficile dire qualcosa di questo libro prescindendo dal suo titolo. Un
titolo è importante, lo dico con qualche cognizione di causa. Nei libri di
poesia è quasi sempre campato in aria, o ripete un verso disperso
nell'opera, ecc., a parte certi titoli memorabili, come Allegria di naufragi, per citarne uno. Ma quello di questo libro
dà l'impressione di essere, per dirla con Genette, un titolo tematico.
Insomma, un titolo forte, che dà una robusta indicazione. Perciò è con una
certa sorpresa che poi, leggendo, ci si ritrova in una atmosfera che non ha
l'odore del sangue né l'ossessione tragica di dare un ordine inventariale
alle cose.
Le cose, certo, ci sono, e appartengono anche nel caso di Nicola Grato a
quello che più volte ho chiamato un universo ristretto. Ovvero
qualcosa di insieme concentrato e "vero" (vero per chi scrive), di
universale e insieme strettamente privato, di condivisibile e insieme
inconoscibile per chi legge. E' il mondo visto da una prospettiva
personale, una vera "soggettiva" in senso cinematografico su una realtà
essenzialmente domestica. Va da sé che ogni poesia è soggettiva,
anche quando chi scrive fa di tutto per defilarsi. Si tratta di vedere
quali, quanti e di che qualità sono viceversa gli oggetti poetici, gli
elementi affettivi, emozionali, estetici che passano.
Questo è fondamentalmente un libro che un giovane dedica alla memoria, a
una memoria che riguarda i morti, certo, ma anche una memoria come valore
etico, come elemento sociale, come eredità ed identità e magari, infine,
come debito ancestrale, verso un luogo circoscritto, che forse la maggior
parte dei giovani abbandonerebbe. Insomma una memoria che rammemora sé
stessa. Sintomaticamente tutto questo è anche memoria della forma, sotto
diversi aspetti che si riflettono soprattutto sulle scelte stilistiche e
prosodiche di Grato, e debito culturale, stante che la versificazione di
Nicola è quanto di più aderente ad una tradizione si possa immaginare. Già
i testi di esordio della raccolta (ed è per questo il senso di straniamento
di cui parlavo sopra) ci spediscono proprio in quell'universo circoscritto
tanto lontano da qualsiasi ipotesi "forte" [anche vaghissimamente
grandguignolesca o tragica] quanto può esserlo un salotto gozzaniano.
Infatti è proprio Gozzano l'autore che più spesso viene alla mente,
soprattutto per le piccole cose, gli oggetti che vengono quasi enumerati,
le molte "cianfrusaglie di tante vite, / cose da poco, monili / perciati
destinati al fuoco". Eppure questi ambienti sono scenari di morte, una o
più, e stratificazioni di un dolore che però sembra rattratto, un po'
frenato, trasferito subito su una malinconia elegiaca che è già - anche
prima di una ipotetica funzione catartica della poesia - elaborazione e
accettazione. Come un bighellonare col pensiero in un villaggio che siamo
rassegnati ad abitare, e che quindi non può nemmeno alimentare una
nostalgia, un ritorno alle origini, visto che siamo già qui. La cifra
complessiva è proprio questa e ruota intorno alla perdita (della madre si
suppone, del padre) però come dicevo già in gran parte metabolizzata
proprio per via poetica. Soprattutto attraverso il fattore poetico per
eccellenza, in una poesia di questo tipo, e cioè il ricordo, uno sguardo
che indugia molto, poi, sugli elementi totemici del ricordare stesso, le
cose, gli oggetti che popolano le stanze, che intermediano tra presenti e
assenti, ne sono - e questo è importante da capire - le spoglie in qualche
modo "animate". Chi scrive è come immobile al centro di questa
perlustrazione dell'ambiente quale contenitore dei ricordi. Il tempo è
fermo al momento degli eventi, privandosi di ogni dopo, come in ogni lutto
che si rispetti. I calendari sono fermi "da una vita a dicembre", gli
orologi sono fermi, le foto, ovviamente, sono congelate in eterno, come la
luce, "una luce / di vetro il giorno ch’è morto / mio padre in dicembre – /
mia madre in aprile". Il legame con tutto questo è forte, si ha quasi
l'impressione che Grato lo viva come impossibilità di distacco, anzi con
una qual soggezione, un "riguardo" che trova qualche riflesso anche nella
lingua, con qualche accento dialettale (settimanile, perciati, cunto,
azolo, balata) che però Nicola non usa in senso pittorico o espressionista,
ma come esornazione o come elemento "nomade" (all'interno dell'italiano) di
un rimpianto.
Le cose migliori, alcune delle quali ho riproposto qui, Grato le esprime
proprio quando si allontana un po' dal memoriale elegiaco per volgere lo
sguardo all'intorno, per osservare con occhio meno privato ma non meno
dolente la vita, per riflettere su quanto di più universale il pensiero può
cogliere anche all'interno di un mondo circoscritto, come ad esempio nella
sezione Sommario dell'abbandono o in parte anche in Un paese di persone in volo. Si intravede qui quello che forse
intravede, poeticamente parlando, l'autore. Cioè l'esaurimento di una
tematica, come ultima elaborazione del ricordo malinconico, o del rimpianto
(e non potrebbe essere altrimenti), e il passaggio verso altre domande su
cui esercitare forse anche un diverso linguaggio o addirittura altre forme.
Insomma, una raccolta in cui forse Grato avrebbe potuto, con i mezzi e la
materia che ha, tentare di andare un po' più a fondo, magari contrastando o
arricchendo il dato memoriale, la massa oggettiva delle "cose" con uno
scatto immaginativo, imponendo alle cose stesse il suo intimo,
trasfigurandole. Ma va detto, a parte queste considerazioni che, come
ricordo sempre, sono solo un punto di vista, che quella di Grato è
complessivamente una poesia piuttosto buona, proprio nel suo essere
tradizionale, anzi crepuscolare, con un orecchio stilistico particolare per
musica e metro, assonanze e rimandi, rime interne e consonanze, insomma con
una cura della lingua che si fa notare. Come dicevo sopra, i mezzi ci sono,
e anche la materia, forse non sfruttata (o aggredita) come avrebbe dovuto.
Immagino che Nicola vorrà mettersi alla prova con altri temi, con altri e
più ampi orizzonti. (g. cerrai)
da Terrazza di cenere e sale
tra le tue cose una rosa secca di santa Rita – tra i medicinali scaduti le ricevute di cambiali gli incartamenti colorati dei regali, biglietti d’auguri per Pasqua e Natale spediti da Forlì; una rosa, povera cosa – riposa da lungo tempo tra le pagine gialle di un libretto delle ore: passita nel silenzio nel bruno del tempo passita povera cosa in una giornata di giugno afosa, fiore devoto – la vita dei vecchi, al suono dei tasti una Olivetti nei cerchi di fumo del tempo.
***
anche tu come loro – i tuoi morti in fotografia sul comodino, il lumino sempre acceso, tuo porto nella notte, quando era tempesta marina – povere cose un sorriso, un viso, una stagione; eppure tutto. Ora piove, trilla il telefono nella sala d’attesa, un vecchio apre il portone per fumare ma c’è troppo freddo e rientra; gelato è pure il caffè che bevo, mentre attendo e non ho il coraggio di dirlo a tua sorella.
***
da Un paese di persone in volo
torna come fa la luna ogni mese, esci dalla nuvolaglia di silenzio e raccontami di te – di quel che vedi e che hai veduto se ancora rimani muto davanti al cangiare dei cieli di maggio; se ti ricordi dei campi di sulla, delle giornate di luce brulla al Castello Maniace di Siracusa, o delle serenate al tuo paese che ingegnavi su un mandolino a tre corde. Torna e dimmi qualcosa, la parola che non ho capito – senti l’attrito dell’aria quando è caldo, segna col dito sul vetro appannato la forma di un sole, il tuo rito privato per un domani migliore.
***
sarà stato sulla balata bagnata di verdure nell’odore di basilico delle due del pomeriggio che il bambino pensò per la prima volta alla morte. Stelle torte dei sogni – scomparire dietro il monte come la luna distratta, un venerdì che in paese c’era odore di bacco, miele boschivo e tela di sacco.
***
da Sommario dell’abbandono
a Giuseppe Zito
avere cura è misura d’ogni luogo, quando scura fa freddo se la finestra rimane chiusa e la muffa mangia la vita... Prendersi cura di un luogo – girare per le vie senza meta, la pista infinita ti conduce al tramonto non appartieni alla lista di chi ha in mano il mondo.
***
piantare un fico per un poeta e un nespolo d’inverno per un barbiere; per mia madre un azzeruolo, un melo per mio padre: era la vita nella casa di cento anni fa. Avere cura salva dall’inferno – la misura del mondo è lo sguardo d’affetto, l’incantamento – per un muro, un vecchio, una stalla, un rivo secco – per il paese in cui vivo.
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è dio del deserto, di Poggioreale vecchio – del vuoto e del niente del demente che ripete il cammino, dell’anfratto, dello scorpione, della piaga che mostra un pezzo di teatro scalcinato – della scalinata di pattume della faccia vizza della vecchia della pala di ficodindia fatta legno.
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da I santi di maggio
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il giorno ch’è morto mio padre, in dicembre, era caldo. Ricordo che c’era un bel sole, mettevo in ordine cose, scartoffie, le carte mancanti e mancanti per sempre le ho tralasciate. Le tessere, il domino, i chiodi per quadri che non ho più appeso. Bisogna curarsi del mondo, è la bussola è il comando: vieni ancora di notte, senti come respira di grano la tua bambina ferita; vieni e rompi la selva di spine che t’arresta alla soglia e buona domenica.
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i santi di maggio se dici che guardano il cielo azzurro di carta contenti e li trovi sul legno chiaro del tavolo dormienti – lasciati a guardia della casa nell’inverno lupo, e quel tempo di papaveri fatti e re e regina e di fave, di un odore di passato in cucina – i santi di maggio volano nel sole come cetonie, come macaone.
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