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Mercoledì, 24 luglio 2019
Giacomo Leronni - Scrittura come ciglio - Puntoacapo Ed.
, 2019

Un libro di poesie che ha il titolo di un saggio, questo di Giacomo
Leronni. Scrittura come ciglio, esercizio, lavoro, professione di
un'arte dall'orlo (e come limitare) di un abisso che solo quello stesso
esercizio ha qualche possibilità di sondare. La scrittura dunque come mezzo
di espressione del noto e di indagine del percepito, o almeno questa è
l'aspirazione di chi scrive, ma bisogna affacciarsi parecchio a quell'orlo
(ed è il ciglio a cui allude Cesare Viviani un uno degli eserghi).
Ricordo di aver già parlato di Leronni nel 2012 (v.
QUI
), in occasione dell'uscita del suo Le dimore dello spirito assente (Puntoacapo). E anche allora la
parola "limite" era spuntata fuori più di una volta, anche per definire
qualcosa, in quel caso "nella sua accezione meno eroica. E' quello cioè in
cui sbatti il naso e ti fermi, guardandoti in giro irrelatamente, e NON
quello in cui invece getti il cuore oltre l'ostacolo e scali la montagna
come Messner. E' il limite quindi oltre il quale la parola, come un
diamante su cui si tenta l'ennesima sfaccettatura, perde la sua funzione e
si sbriciola". E' il problema fondamentale di una poesia che si muove in
ambiti elettivi, in ambienti anche culturali che marcano stretta la
scrittura entro certi confini, la "suggeriscono", la sfumano, e con essa
operano una "estrazione dell'essenza" (dicevo allora). Si tratta di un
influsso culturale che l'autore porta con sé, quello letterario francese, e
cioè, mi pare di aggiungere sinteticamente, tutto un areale simbolista in
cui l'oggetto, ma anche l'evento o il dato esperienziale, perdono (anzi
devono perdere) i loro lineamenti, i loro tratti distintivi, in un certo
senso il loro "fuoco". Certo, bisogna fare i conti con un'aria rarefatta,
le altezze simboliche e metafisiche sono considerevoli, l'ossigeno potrebbe
non essere sufficiente se si partisse, come lettori, da un pre-concetto
normativo o canonico (qui comunque il canone c'è ed agisce, stante che,
come ricorda anche il prefatore Daniele Maria Pegorari, i riferimenti, non
solo stilistici, sono a quella cultura) o dalla semplice risultante, di cui
occorre tener conto per capire, di una scrittura "disinteressata nei
confronti dell'oggettività del mondo" che agisce "su un piano di pensiero
puro che lascia del tutto in ombra la realtà" (ancora il prefatore). Sono
d'accordo, ovviamente, ma da qui bisogna ripartire, traendone qualche
conclusione. Certo, il "ciglio" di questo titolo metapoetico può essere
anche quello di uno sguardo celato ma non precluso, filtrato ma non miope,
quello sornione e smagato di chi tenta di superare la realtà oggettuale per
avvicinare quella più intima, ma per l'autore non meno concreta, delle
cose, che, come ci insegna Remo Bodei, sono oggetti materiali o immateriali
caricati delle nostre idee, di contenuti simbolici o affettivi (del resto,
gli "oggetti" comunemente intesi, elementi che denotino una materialità del
mondo o un aggancio ad esempio alla natura, in questi versi sono rari). Il
mondo di Leronni è densamente spirituale, in almeno due accezioni: la prima
sicuramente è quella di uno spirituale rinvenibile all'interno del sé
poetico, quella cioè che Leronni esplora in quasi ogni testo, anche ove non
sembri palese, quasi come se, mi pare, fosse alla ricerca di una conferma
di quella "immagine e somiglianza" con qualcosa di trascendente che l'uomo
accarezza nella mente, ancorché non gli sia stata assegnata fin dalla
creazione, insomma un pensioero "universale"; l'altra è quella di un
confronto non dichiarato (e forse non importante) con il divino di un Dio
raramente nominato, anzi visto con un occhio un po' dubitoso ("l'onda cupa
che tutti chiamano Signore"; "un Cristo di livore") soprattutto perché, mi
pare, c'è sì da qualche parte ma rappresenta una ardua sfida, un tema
troppo impegnativo per le parole, che viceversa sono le cose in cui il
poeta crede maggiormente. Alla fine dobbiamo ammettere che stiamo parlando
più di spirito che di spiritualità, o di una spiritualità tutta laica,
nella quale appunto è la parola, la sua potenzialità evocativa/astratta, ad
officiare. In effetti la lettura di questo libro mette di fronte
all'evidenza di quanto lo stesso Leronni afferma, proprio nella sezione Il ciglio: "Tutto è piegato alla parola", e più avanti, "Tutto è
sedotto dalla parola" (ma anche: "nella luce impervia reclutavo / parole
isolate, topazi"). Siamo al centro, è ora ovvio, di un universo che l'uomo
si è creato da sé, con la parola, e questa "parola" è come se avesse una
maiuscola omessa dall'autore per modestia. Un universo che tuttavia
presenta, come tutti, i propri abissi e i propri margini, non è esplorabile
del tutto. Ma, cosa importante che avevo già sottolineato a proposito de Le dimore dello spirito assente, Leronni non bara sul linguaggio
con cui affronta i suoi temi, non è volutamente oscuro per quanto astratto,
e se talvolta lo è dipende forse dal fatto che, come avviene anche nei
simbolisti ma anche negli ermetici, l'immagine che il poeta persegue è
troppo "privata", come racchiusa in una intima stanza. In altre parole, non
è detto che io e il poeta leggiamo in questi versi le stesse cose,
evochiamo le stesse immagini. In effetti ogni singolo testo presenta un
problema di interpretazione, nello stile di Leronni è arduo già
identificare, nell'astrattezza dei temi, la vaghezza delle "persone"che si
incontrano, a cui talvolta il poeta si indirizza, un "tu" a volte
riflessivo a volte ignoto, altri sfocati destinatari, alcuni "noi"
accomunati nella riflessione su quel nulla (e l'oscuro, e il buio e tutti i
correlati) che si intravede oltre il ciglio e che costituisce forse il tema
principale della visione laica di Leronni. Che sembra sempre, come il
Montale di "Forse un mattino andando in un'aria di vetro", in procinto di
sorprendere una verità sfuggente, cogliendola però non con lo sguardo ma
con la rete di parole che Leronni è assai abile a tessere. E quella verità,
come accennato, è che nel tramaglio delle parole - che alla fine, di tutto
ciò che interseca il vissuto di un uomo, affetti, amori, dolori, raccoglie
soprattutto la convinzione che l'uomo (e il poeta specialmente) è ciò su
cui riesce a riflettere - resta un'idea di impermanenza, o di essere uomo
"singolare" che sperimenta il suo essere "libero" di fronte al nulla
(un'idea un po' di marca esistenzialista). In un certo senso, se si
accettano questi presupposti e quel che di apodittico (ma forse dovremmo
parlare di oscura assertività) portano con sé compresa l'
"esclusività" dell'esperienza del poeta, anche gli aspetti più criptici
della poesia di Leronni si illuminano di lampi, e l'interesse che ne emerge
è proprio l' "intravisto", una sorta di "vuoto che fruscia // lampo su
lampo, scossa dopo scossa", poiché anche "il vuoto più distante dispone /
del favo che lo rischiara". E spesso, proprio nell'economia della parola,
della sua "libera" circonvoluzione intorno al "ciglio", è l'uso di potenti
artifici come metafore, analogie, similitudini, accostamenti dinamici e
creativi (talvolta un po' forzati) tra soggetti e/o oggetti e predicati
(gli esempi sono moltissimi) ecc., che conferisce al testo un'autorevolezza
di "senso", per quanto ellittico esso possa essere. Un libro complesso,
come lo era Le dimore, in cui si intravedono sviluppi forse più di
stile che di temi (e le cose di gran lunga migliori in entrambi i sensi mi paiono nella sezione Una verità impensabile), e in cui mi pare
permanga ciò che allora avevo definito come "una poesia 'percettiva'
orientata sui riverberi degli eventi sulla psiche", alimentata "da un
pensiero analitico insonne e a volte impietoso, da uno spirito tutt'altro
che 'assente' ". (g. cerrai)
da La meraviglia sospesa
Camminare
In un vicolo un pugno di buio dentro. Le costole a sorreggere il pensiero la tenuta adiposa dello sguardo. Intorno morsi, briglie. Nel dubbio, se dover scendere se accostare una bocca confidente.
Pavidi a parte, o vicini forse a fianco.
La torre è superata la piazza lasciata indietro, varcato l'anello del cosmo. Da una finestra spunta non si sa come un volto (Lazzaro in festa, Lazzaro decomposto). Non ti fermi. Non dai peso agli annunci, ai fari non ti lasci fiaccare. La luna ti chiede udienza. Le fai posto schiarisci la voce. Poggiala lì la tua inconsistenza.
da Nel cuore dell'ortica
La precarietà del lancio
Copiose frequentazioni avevano ridato smalto alla sua notte.
Per agili prati e tele sconnesse ripropose il suo giudizio: quello dell'annientamento era il patio più riuscito.
Sinistre intese gli permisero di perorare la sua causa: incerava allora il cielo.
Non voleva ammettere la precarietà del lancio
principe definitivo e assente
upupa spettrale che fonda imperi e dinastie.
da Carezze dal fuoco
Tutto il resto è tuo
Non paghi la forza dell'ulivo il planare accorto dell'onda
non versi nulla per il cavallo con la sua gloria di mosche
(la colpa è disfatta molesta sempre meno l'ustione dell'età)
con audacia afferri la tua chiave d'angora per schiudere precipizi.
Non paghi il malessere della buccia
il rimorso del granchio sbeffeggiato dalla corrente.
Tutto il resto è già tuo fino alla stella impossibile alla peste.
da L'invisibile
Alone, membrana
Giustificavo il pane nel varco dell'insonnia
lo sostenevo fibra nella morsa dell'assenza.
Briciole coese per una più perfetta mutilazione
bagliore nel tripudio dell'ombra.
Contendevo la resa adornato di morte futile
un brogliaccio per la luce appendice che finge la saldezza
ed ero alone, membrana impercorribile del tempo.
da Scabrosa santità
Fino all'elezione
La cicatrice all'entrata nel vortice (la fede di chi era transitato in precedenza)
vagava bizzosa dal giudice al pellegrino
nel carcere di foglie contro l'alba.
Si diceva che guarissero avvolgendosi nella morte: quella loro resa una gioia intemperante.
Più giù al quotidiano mercato delle menti, le vene intercettavano il silenzio.
Era la stessa voce quella che cingeva il fuoco fino all'elezione.
da Una cipria di vittime
La diga dell'inganno
Non ho portato niente oltre la diga dell'inganno non ho salvato il lauro sulla lamina del cielo.
Da scampato misuro le certezze: latita l'evidenza dei monti è pingue l'ombra che mastichiamo.
Da puri dovremmo praticare il silenzio fiaccare la boria in stanze mute.
Le menti che mi fiondano nel vuoto hanno punte minime aculei sottratti al desiderio:
sanno bene che la mia attesa non le giudica che il mio nome le porta orgoglioso come occhi.
da I forni dell'amore
L'equivoco dell'eternità
Mentre ti accendo vibra l'estate, si fanno aguzzi i corpi, presagio
vertigine del tempo che soffoca: sembra l'ultimo impegno assunto con leggerezza
questo tuo cuore di morsi.
Devono esserci gesti mondi che si producono inavvertiti oltre noi
leve di carne per osare una riconoscenza negata alle spiegazioni, ai rimorsi.
Lì s'interrompe l'equivoco dell'eternità:
sei te stessa, spoglia, vera morte.
da Il pane sfuocato della forma
La farina che s'aggruma in anni
Il pensiero è pane canale affamato di memoria.
Distolgo i sensi dalla loro periodica caduta anticipo la lama dispettosa del saluto:
la pioggia in un giorno inerte scaverà immancabile, santa, volteggiando per miracoli tarpati.
La farina che s'aggruma in anni di sibili modesti, di furore indissolubile, vano la misera polvere a conforto degli strappi, della confidenza
la riconosci col respiro teso la illumini col fuoco del caso se confermi la ruvida condanna arrischiando la parola ventosa
impennando la mente che s'inganna.
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